Una delle tematiche più ricorrenti nella poetica del rock è quella del viaggio. La storia è piena zeppa di road songs: motori rombanti, sogni di capelli al vento, auto che sfrecciano su assolate Interstate che attraversano il nulla, scassatissimi pick-up che percorrono polverosi deserti, fughe verso un futuro migliore, vagabondaggi alla ricerca di se stessi.
Se poi al tema del viaggio aggiungi l’immagine del treno, le suggestioni crescono a dismisura, soprattutto se hanno come oggetto una storia d’amore. Ricordate la bellissima Love In Vain di Robert Johnson poi portata al successo dai Rolling Stones? “When the train rolled up to the station, I looked her in the eye / When the train rolled up to the station, and I looked her in the eye / Well I was lonesome I felt so lonesome, and I could not help but cry / All my love's in vain“ cantava il grande chitarrista di colore, rendendoci partecipi di uno struggente addio.
O che dire della disperata Downbound Train di Springsteen, nella quale la vita di un operaio somiglia a un treno che sprofonda sottoterra: Joe ha perso il lavoro, lei ha comprato un biglietto per la Central Line e lo ha lasciato, e lui che non riesce a prender sonno sente “il fischio di quel treno e i suoi baci nella notte scura “? Poetico, vero? Il binomio treno che parte e amore che finisce, funziona sempre, è un clichè emozionale abusato ma efficacissimo.
Eppure, il treno più famoso della storia del rock viene raccontato in Long Train Running dei Doobie Brothers, una canzone che parla d’amore ma non di addii. Il treno è semplicemente un pretesto, uno specchietto per le allodole, lo spunto per una riflessione filosofica sul senso della vita. “Dietro l’angolo, a mezzo miglio da qui, vedi quei vecchi treni passare e li vedi scomparire senza amore “canta Tom Johnston.
Il treno è la metafora malinconica di un’esistenza senza gioie, senza amore. Il ritornello, celeberrimo, esplicita il concetto: “Without love, where would you be now without love?“. Dove saresti ora senza amore? Aggiungo, io: dove sarebbero ora i Doobie Brothers senza Long Train Running? Fermi al palo, probabilmente, visto che prima dell’uscita di The Captain and Me, l’album del 1973 che contiene la famosa hit, il gruppo navigava nelle torbide acque di una mediocrità senza speranze. Due dischi modesti, qualche buono spunto compositivo in un contesto musicale molto convenzionale, un seguito di affezionati fans, ma nulla che facesse presagire il successo planetario e la leggenda.
Fu un’intuizione del manager del gruppo, Ted Templeman, a cambiare il corso della storia. Long Train Running, infatti, era originariamente un brano strumentale che i Doobie usavano come riempitivo nelle scalette dei concerti, una sorta di canovaccio su cui poi improvvisare e far partire interminabili assoli. Templeman suggerì alla band di accorciarne la durata e di aggiungere alla musica anche un testo, e mai illuminazione si rivelò tanto decisiva. La canzone fu il traino per un successo epocale: il fulminante riff funky di chitarra, gli ammiccanti arrangiamenti vocali, il richiamo all’epica dei grandi spazi sono diventati patrimonio di intere generazioni di rocker. E quel treno, che in tante canzoni parlava di dolore e di addio, si trasformò per i Doobie in un Eurostar che fila dritto verso la gloria.