Può accadere, nel tempo, che una band smetta di essere solo una somma di intenzioni sonore e diventi una forma di riflessione in movimento. Lonely People with Power, il nuovo album dei Deafheaven, dà la sensazione di nascere proprio da questo tipo di maturazione: non come svolta, non come rientro nei ranghi, ma come il prodotto naturale di un processo di autoconsapevolezza. Il disco non cerca mai la provocazione, né il colpo di scena, ma si impone per la sua coerenza interna, per la capacità di stare dentro le proprie contraddizioni senza esaurirle in una tesi. È un album che non chiede ascolto, ma che lo merita.
Il sesto lavoro della band californiana è attraversato da una tensione compositiva che non si risolve in maniera eclatante, ma che mantiene viva l’attenzione lungo tutta la sua durata. I Deafheaven, dopo aver esplorato negli anni una gamma di linguaggi estremi e atmosferici, riescono qui a distillare le loro influenze in un equilibrio sobrio, quasi riflessivo. Non si tratta più di alternare brutalità e melodia in maniera binaria, ma di intessere queste due componenti in un tessuto continuo, privo di fratture apparenti.
La produzione di Justin Meldal-Johnsen (M83, Paramore, Wolf Alice, St. Vincent) contribuisce in modo decisivo a questa impressione di compostezza. Le chitarre di Kerry McCoy e Shiv Mehra non cercano più l’effetto a sorpresa, ma costruiscono progressioni allo stesso tempo coerenti e sognanti, spesso più eleganti che incisive. La sezione ritmica, composta da Chris Johnson (basso) e Daniel Tracy (batteria), è precisa e funzionale, e agisce come fondamento narrativo, senza essere mai invadente. George Clarke, infine, modula la propria voce con intelligenza, evitando eccessi drammatici, andando a lambire territori post-hardcore, ricordando in certi frangenti il cantato di Jacob Bannon dei Converge.
L’apertura del disco, affidata a “Incidental I”, è un’introduzione breve, atmosferica, quasi neutra. Non crea aspettativa, ma prepara lo spazio per ciò che seguirà. “Doberman”, “Magnolia” e “The Garden Route” riportano in superficie le radici metal del gruppo (“Magnolia” ricorda gli Enslaved, ed è un pezzo black metal in tutto e per tutto), ma lo fanno con una scrittura più asciutta e consapevole rispetto al passato. Ogni riff è funzionale al brano, ogni passaggio musicale sembra rispondere a una logica più che a un impulso.
Con “Heathen” e “Amethyst” il disco si espande, ma non deraglia. La durata delle canzoni aumenta, ma la loro forma rimane decifrabile. In “Amethyst”, in particolare, si avverte una costruzione interna stratificata, che alterna momenti di sospensione a sezioni più dense senza mai eccedere, in equilibrio tra Opeth e American Football (ammesso che questo sia possibile). In “Heaten”, invece, i Deafheaven uniscono con perizia le pulsioni metal con le ambizioni shoegaze, creando un ibrido perfetto. È in questi brani che si misura la maturità compositiva della band: l’attenzione alla dinamica interna, alla gestione dello spazio, al silenzio come elemento espressivo.
La seconda parte dell’album, introdotta dall’interludio “Incidental II”, con uno spoken word di Jae Matthews della band darkwave Boy Harsher, dà a Lonely People with Power un tono più scuro e serrato – questo è forse il brano più pesante, nel senso più ampio possibile del termine, inciso dai Deafheaven fino a questo momento. “Revelator” e “Body Behavior” sembrano invece esplorare un’ambivalenza tra stasi e impeto, costruendo sezioni in cui la tensione non esplode, ma si dissolve gradualmente. E se “Revelator” tutto sommato è un pezzo blackgaze, “Body Behavior” ci fa capire come avrebbero suonato i Joy Division se avessero ascoltato più metal.
Il terzo e ultimo atto di Lonely People with Power si apre con “Incidental III”, con la voce di Paul Banks, un brano che non aggiunge tanto in termini narrativi, quanto piuttosto in termini di atmosfera: quella del leader degli Interpol è una presenza discreta, ma non priva di significato. I due brani finali, “Winona” e “The Marvelous Orange Tree”, chiudono l’album con uno sguardo più lirico. “Winona” in particolare si impone per precisione e controllo: ogni elemento trova il proprio posto in un equilibrio quasi architettonico, andando a riassumere in sette minuti tutte le influenze sonore dei Deafheaven, dagli Immortal ai Mogwai passando per gli Explosions in the Sky. L’ultima traccia, con la sua strizzatina d’occhio nel titolo a “The Pecan Tree”, brano cardine del capolavoro Sunbather, assume invece quasi la forma di un epilogo meditativo, senza enfasi, ma con una chiara volontà di chiusura di un cerchio.
Il titolo dell’album, Lonely People with Power, e il provocante artwork, curato da Nick Steinhardt dei Touché Amoré, suggeriscono una riflessione più ampia: sul concetto di potere, sulla distanza tra intenzione e risultato, sulla solitudine come condizione generativa. I testi di Clarke, come sempre frammentari e allusivi, non cercano di guidare l’ascoltatore, ma ne assecondano le domande. È un linguaggio che si muove per immagini, per scarti, per omissioni – e in questo modo, lascia spazio a una lettura personale, mai imposta.
Dal debutto con Roads to Judah (2011) a oggi, la carriera dei Deafheaven è stata tutto fuorché lineare. A ogni passo, la band ha evitato la reiterazione, scegliendo invece una forma di ricerca interna. Sunbather (2013) ha rappresentato un momento di svolta culturale e linguistica, mentre New Bermuda (2015) e Ordinary Corrupt Human Love (2018) hanno affinato un discorso già di per sé frastagliato. Con Infinite Granite (2021), i Deafheaven hanno abbracciato lo shoegaze di band come Ride, Lush e Slowdive, sfiorato una forma quasi pop, ma senza rinunciare alla complessità. Lonely People with Power non chiude questo percorso, ma lo approfondisce.
Non è un album che ambisce a riscrivere nulla. È, piuttosto, un lavoro che chiede tempo, attenzione e disponibilità all’ascolto. Non propone un’identità definita, ma una forma di apertura. Non fa dell’intensità una maschera, ma la riconduce a un gesto compositivo sobrio e necessario. Ed è proprio in questa misura, in questa riluttanza a semplificare, che risiede la sua forza più duratura.