“Il tempo significa interrompere in un attimo tutto ciò che accade, lesse.
All’errore è preferibile il ritardo.
Gli ostacoli sono soltanto dei gradini”
L’occhio della montagna è il terzo romanzo della scrittrice e artista irlandese Sara Baume (Lancashire, 1984). I due protagonisti, Bell (Isabel) e Sigh (Simon) - “Campana” e “Sospiro” - a un anno dal loro primo incontro, decidono di lasciare Dublino, la città in cui vivono, per trasferirsi, insieme ai loro due cani, in una casetta isolata nella campagna irlandese, ai piedi di una montagna. “Il rumore del monte era il rumore del vento che lo accarezzava e lo attraversava, che ne spazzava le pareti rigide, che ne arruffava la testa irsuta. Certe volte il monte incoraggiava il vento e altre volte lo fermava.”
“… erano curiosi di vedere cosa sarebbe successo se due misantropi solitari avessero provato a vivere insieme”, tagliando definitivamente i ponti con le vite precedenti e con chiunque ne avesse fatto parte, famiglie comprese.
Un cambio di vita radicale e coraggioso, in cui non c’è più spazio per doveri e convenzioni. Così, pagina dopo pagina, prende vita una sorta di isolamento volontario, in cui il contatto dei due protagonisti con gli altri esseri umani è ridotto all’essenziale. “Vivevano in una specie di ritiro. Vivevano come se fossero loro la roba preziosa – vicini alla fine della loro vita utile”. Quando si recavano in paese, pur di non essere riconosciuti o ricordati, tentavano dei travestimenti. La coppia costruisce pian piano un piccolo microcosmo fatto di abitudini e gesti che si ripetono. A dettare i tempi e le regole del quotidiano sono la natura, le loro esigenze, perlopiù fisiologiche, e quelle dei due cani, e compagni fedeli, Voss e Pip. Un microcosmo in cui le parole appaiono quasi superflue e le poche che rimangono, dopo qualche tempo, vengono soppiantate da una sorta di dialetto comprensibile solo a loro. Un po’ come la Cryptophasia, il linguaggio segreto che i gemelli sviluppano nei primi anni di vita.
E in effetti Belle e Sigh, anno dopo anno, vivono sempre più in simbiosi, condividendo ogni singolo istante e ogni singola esperienza. “Campana” e “Sospiro” sono diventati una cosa sola, nonostante nel racconto siano totalmente assenti riferimenti al sesso o allo scambio di gesti d’affetto. A tratti, quasi ci si dimentica che Belle e Sigh siano una donna e un uomo e soprattutto che siano una “coppia”.
Bell e Sigh amano la natura, ne fanno parte e la rispettano. Detestano lo spreco. Tutto viene usato e consumato fino all’ultima goccia. Tutto – compresi i due protagonisti – appare consunto, sciatto e maleodorante. I loro denti malandati, i piumoni dei cani che puzzano, ma che continuano a rimanere al loro posto, le zecche conservate in vasetti di vetro, poi ammucchiati sul frigorifero… “Si affezionarono alla loro roba schifosa e inutile, che diventò, per Bell e Sigh, preziosa. […] Si erano abituati allo sfacelo.”
Tutto viene elencato, catalogato, misurato in un modo quasi maniacale, ossessivo… anche la spesa, la quantità di cibo acquistato, mangiato, consumato durante i loro anni di vita lì… “A quel punto avevano portato a casa dal paese un ammasso gigantesco di fagioli marroni e fiocchi d’avena, diecimila croccantini gusto manzo e duemila pezzi di carbone, cento mele, cento cipolle […] A quel punto avevano visto due volte una gazza seduta su una vacca, ma solo una volta una mucca con una fascetta intorno alla fronte come un tergisudore, o un diadema.”
La verità è che per tutto il tempo, fino all’ultima pagina, ho atteso (e anche sperato) che accadesse qualcosa, non solo tra i due protagonisti, ma proprio all’andamento della narrazione. Mi aspettavo che prima o poi sarebbe affiorata una “storia” a cui appassionarsi, che ci fosse altro… E invece no, non esistono dialoghi e non esiste una trama vera e propria, se non il racconto di ogni singolo dettaglio del quotidiano, delle stagioni che si alternano e del tempo che passa e che consuma corpi e oggetti.
Un libro pregno di descrizioni, alcune anche molto poetiche, ma che se ne stanno lì, come fossero un puro esercizio di stile, senza che vi sia una trama vera e propria a fare da collante. Qualcuno potrebbe obiettare che ogni quotidiano, di per sé, è “una storia”, e io non posso che essere d’accordo, ma non sempre basta per mantenere vivo l’interesse del lettore.
Il mio, infatti, pian piano è scemato, trasformandosi, a tratti, in vera e propria insofferenza. Mi è mancata l’emozione, mi è mancato il coinvolgimento e anche un minimo di immedesimazione con i due protagonisti, troppo lontani da me.
Ciò non toglie che Sara Baume scriva benissimo e che sia abilissima nel trasformare la sua grandissima immaginazione in parole poetiche ed efficaci. Tuttavia, e lo dico con grandissimo rammarico, perché provo immenso rispetto per chiunque faccia arte e abbia qualcosa da raccontare, tra me e L’occhio della montagna non è scattata la scintilla, ma questo non significa che su di voi, invece, non possa avere tutt’altro impatto.