Probabilmente è giunto il momento di parlare di Brian Fallon senza tirare per forza in ballo i Gaslight Anthem. Sciolti da tempo, con la reunion del 2018 a fungere da mero evento estemporaneo limitato ad una serie di concerti negli Stati Uniti, la band del New Jersey non esiste più e il suo cantante e chitarrista, nonché fondatore e leader indiscusso, arrivato al terzo disco, ha ormai messo in chiaro che la sua carriera solista è la sua priorità. Non a caso “Local Honey”, che arriva a due anni di distanza dal precedente “Sleepwalkers” e che è prodotto da un nome importante come Peter Katis (The National, Death Cab for Cutie, Interpol) è il primo dei suoi lavori ad essere totalmente focalizzato sull'oggi, a non avere nessun riferimento al passato, nessuno sguardo nostalgico di sorta.
Superati i problemi personali del periodo “Get Hurt”, dimostrato a sé stesso e agli altri che può andare avanti bene anche senza la band e col suo nome scritto in copertina, Fallon è ormai più che lanciato nel proprio percorso. E pazienza se, almeno in Italia, è stato scoperto e santificato da quella categoria pericolosissima che sono i talebani springsteeniani (ci hanno messo più tempo del previsto ma alla fine, purtroppo ci sono arrivati pure loro); noi gli vorremo bene lo stesso, qualunque scelta deciderà di fare.
Ma volere bene a qualcuno significa anche essere sincero con lui in ogni momento, per quanto scomodo questo possa essere. E allora nessuna remora a dire che, per quanto mi riguarda, “Local Honey” è un disco mediocre, che racimola una sufficienza scarsa solo perché, proprio per l’affetto che mi lega a lui, ho voluto dargli l'ennesima chance.
E ho scoperto che, nel bene e nel male, qualche cosa carina c’è, dal piglio battagliero di “Lonely for You Only” e “21 Days”, alla malinconia agrodolce di “Vincent”. Che sono canzoni sentite e stra sentite, per carità, ma sono comunque quelle che rimangono di più, quelle su cui viene voglia di soffermarsi. Il resto, mi spiace, è davvero poca roba.
E attenzione che non dipende dalla scelta dei suoni, dall'aver voluto abbandonare a tutti i costi il Combat Rock in stile Clash in favore di un sound intimista, che batte senza remore i territori del Country Folk (anche il titolo del disco evoca di suo una sensazione di calore e sicurezza casalinga).
La produzione è ottima e nonostante le scelte in fase di arrangiamento siano alquanto discutibili nella loro scontatezza, la prova vocale è maiuscola, canta in maniera più controllata, senza per forza insistere su tonalità alte e lavorando maggiormente sull'espressività; oltretutto c’è un ottimo bilanciamento delle varie componenti per cui la voce si trova sempre al punto giusto all'interno del mix.
Il problema principale, dispiace davvero dirlo, è il songwriting. Diciamoci la verità: Fallon non ha mai brillato per inventiva. È bravo, mette sempre il cuore in quello che fa ed è uno di quegli autori abbastanza abile da riuscire a scrivere canzoni efficaci utilizzando sempre le stesse soluzioni. È un giochino che gli abbiamo visto fare fin troppo spesso, che ai tempi dei Gaslight ha bene o male sempre funzionato (almeno per il sottoscritto, perché poi se si ascolta in giro, ce ne sono molti non troppo contenti degli ultimi dischi) ma che ora, al terzo lavoro in solitaria, si inceppa irrimediabilmente, dando vita ad un lotto di canzoni che è sì insolitamente breve ma dal quale ci si accomiata lo stesso con una sensazione di noia e di stanchezza diffusa.
E attenzione che qui il problema non è cambiare. A me va benissimo che abbia messo in soffitta la sua band. Non sono un nostalgico, la loro stagione l’ho vissuta in pieno, li ho visti un sacco di volte dal vivo, mi sono divertito e me li sono gustati fino in fondo. Sono contento che si sia impegnato così tanto, che abbia preso lezioni di chitarra, di piano, che si sia sforzato di cantare meglio, di realizzare un prodotto che fosse valido innanzitutto sul piano meramente musicale. E mi fa piacere che sia un disco sincero, che si sia messo a nudo come mai prima e che lo abbia fatto, finalmente, dal punto di vista di una ritrovata serenità.
Ma occorre uscire una volta per tutte dal luogo comune per cui fare un disco sincero equivalga per forza di cose a fare un bel disco. Lo sforzo è stato grande ma le canzoni scorrono via e non lasciano nulla. Dipende dal fatto che, scrivendo sempre le stesse cose, alla fine ha finito le idee? O forse (ma attenzione che anche questo è un luogo comune) la serenità ritrovata alla fin fine incide sulla creatività?
Non saprei dirlo. Quello che sento è un disco di Brian Fallon che, al di là del vestito scarno e della predilezione per le ballate, suona esattamente come tutte le altre cose che ha fatto, con la differenza che adesso riesce a farci sbadigliare.
E attenzione a paragonare, come ha dichiarato lui stesso, la conclusiva “You Have Stolen My Heart” alla Smithsiana “Please, Please, Please Let Me Get What I Want”: nessun dubbio che, al momento di scriverla, l’orizzonte fosse quello ma, anche senza recitare la parte dei passatisti incalliti (chiunque mi conosca sa che non corro questo rischio) la distanza tra i due brani è siderale e, ribadisco, non certo perché il secondo è un classico.
Ripeto, sufficienza risicata perché comunque pezzi brutti non ce ne sono e due o tre sussulti nel corso dell'ascolto li abbiamo provati. Per il resto, c’è da correre ai ripari perché il rischio è che, al di là del nome ormai affermato, Brian Fallon si riduca a sfornare un disco dopo l'altro senza più riuscire a lasciare il segno.
Per tutto il resto, se volete assaporare il suo lato più intimista e vagamente da crooner, il disco uscito nel 2011 a nome Horrible Crowes rimane ancora il punto di riferimento più importante.