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REVIEWSLE RECENSIONI
06/09/2018
James
Living in Extraordinary Times
Con i suoi eccessi e le sue stranezze, “Living in Extraordinary Times” dei James fatica ad attirare l’ascoltatore casuale, limitandosi a parlare un linguaggio musicale familiare solo ai già convertiti. Ma quello che può essere visto come un atteggiamento di snobismo, non è detto che in qualche modo non sia anche un pregio.

Di tutte le band con le quali Brian Eno ha incrociato il suo percorso, nessuna lo ha fatto con la costanza dei James. Neanche gli U2. Ma se da un punto di vista artistico il sodalizio tra l’ex Roxy Music e il combo mancuniano si può definire riuscito, da quello – diciamo così – mediatico non si può affermare la stessa cosa. E così, a dispetto di una buona dose di ambizione, Tim Booth & Co., nonostante le buone vendite, qualche singolo piazzato nella parte alta delle charts e una solida discografia alle spalle, non ce l’hanno mai fatta a uscire dal circuito delle band di culto. E forse è stato meglio così.

Giunti al quindicesimo album (l’ottavo dalla reunion del 2007), ormai si può dire che i James siano una macchina perfettamente oliata, senza particolari ossessioni se non quella di consegnare al proprio pubblico un buon disco, qualche nuova canzone che regga il confronto con le altre in catalogo e, soprattutto, sperimentare nuove possibilità sonore per non rimanere impantanati nella routine.

E se nel precedente Girl at the End of the World una certa elettronica l’aveva fatta da padrone, grazie alla mano pesante del produttore Max Dingel, qui, in Living in Extraordinary Times, l’incontro tra le due anime dei James (una più analogica e tradizionale e l’altra digitale e tesa alla ricerca) si fa più equilibrato e organico. Ma non per questo meno al passo con i tempi. Il lavoro dietro alla consolle fatto da Charlie Andrew e Beni Giles, infatti, rende il sound dei James scintillante, rotondo ed estremamente up to date, tanto da ricordare, nella capacità di unire chitarre e sintetizzatori, intimismo da club e melodie da arena, quanto fatto dai migliori Alt-J (non a caso anche loro clienti affezionati di Andrew).

Ovviamente un vestito accattivante non basta da solo a rendere un album più accessibile. E i James, band idiosincratica come poche, non vogliono essere nient’altro che loro stessi. Per cui Living in Extraordinary Times – con i suoi eccessi, l’incapacità di sintesi, le sue stranezze, la verbosità e il salmodiare di Booth – fatica ad attirare l’ascoltatore casuale, limitandosi a parlare un linguaggio musicale familiare solo ai già convertiti.

Ma quello che può essere visto come un atteggiamento di snobismo, ovvero il volersi dedicare esclusivamente a quella porzione di pubblico che è abituata a un certo tipo di ascolto, non è detto che in qualche modo non sia anche un pregio. Perché chi avrà la voglia di approcciarsi a Living in Extraordinary Times con la dovuta attenzione, troverà l’esperienza molto più arricchente e profonda rispetto all’ascolto effimero ormai caratteristico di quest’era digitale.