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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
16/10/2023
Albert King
Live Wire/Blues Power
Registrato dal vivo nel 1968 al mitico Fillmore Auditorium di San Francisco, "Live Wire/Blues Power" fa emergere l’incredibile abilità di Albert King nel combinare il sound del blues rurale con quello urbano, facendolo diventare un maestro del genere.

Dopo tante peripezie e una vita piena zeppa di cambiamenti e spostamenti, dal natio Mississippi all’Arkansas, poi a Brooklyn nell’Illinois e infine a Memphis nel Tennessee, Albert King trova la sua definitiva statura musicale a metà anni sessanta, oramai più che quarantenne, grazie alla firma per la Stax Records, leggendaria casa discografica statunitense, e alla successiva pubblicazione del suo album di riferimento per antonomasia, Born Under a Bad Sign. Il disco diventa in breve tempo una pietra miliare per il movimento blues che sta vivendo un momento di stallo e necessita un forte scossone per non cadere nella routine del già sentito, in modo da non rischiare una stagnazione del genere.

Il sound unico e speciale della sua “Lucy”, la mitica Gibson Flying V e un repertorio rinnovato, con alcuni brani autografi insieme ad altri scritti su misura per lui, conquistano le nuove leve in America e oltre oceano, da Jimi Hendrix, Mike Bloomfield e Joe Walsh a Eric Clapton. Ogni esibizione di Albert King è pervasa dal sofferto feeling dei suoi fraseggi ed è sorprendente come da mancino riesca a suonare la chitarra da “destri” ribaltata, senza neanche cambiare l’ordine delle corde. Il suo stile di esecuzione è dominato dal “bending”, ma ovviamente confezionato con una tecnica tutta propria, originale, che dà ancora maggior enfasi alle note alte.

 

Live Wire/Blues Power, registrato nel 1968, solo un paio d’anni dopo Born Under a Bad Sign, rappresenta così una delle vette di King e certifica quanto descritto sopra, evidenzia la sua naturalezza e unicità nei riff e negli assoli. Una profonda passione e una grande, bellissima voce, aggiungono ulteriore stupore nell’ascoltare, vedere le performance di questo gigantesco omone alto due metri e pesante più di cento chili, che non ha fatto segreto di non usare mai il plettro a causa delle dimensioni delle sue mani. Gli oltre dieci minuti di “Blues Power” sono la quintessenza dello stile di Albert King: una prima nota esplosiva prodotta dal Maestro viene immediatamente strangolata dal silenzio, prima di permettere a una seconda di acquisire forza e diventare formidabile sostegno per l’architettura sonora di tutto l’assolo.

 

«Nessuno può suonare come Albert King, non ho mai sentito nessuno avvicinarsi. Tanto per cominciare la sua accordatura è la cosa più strana, impensabile a vedersi, e il fatto che suoni al contrario, tirando quando tu stai spingendo, rende impossibile ogni confronto. Vincerebbe sempre lui!».

Le parole di Gary Moore, tratte da un’intervista per musicradar.com, illustrano non solo la difficoltà per un chitarrista normale nell’affrontare le scale e i fraseggi dell’uomo soprannominato velvet bulldozer, ma anche quanto un eroe della sei corde come lui fatichi, sia mentalmente, sia più semplicemente a livello tecnico, a produrre quelle note tirate. E pensare che Moore ha spesso condiviso il palco con l’artista a stelle strisce, registrando pure in studio e carpendo i suoi piccoli segreti. Forse solo Stevie Ray Vaughan (altro fan sfegatato di quello stile) gli si è avvicinato un poco nel campo della qualità sonora, ma rimane ad ogni modo inimitabile.

Ascoltando le altre tracce presenti nell’opera si rimane a bocca aperta. La band scelta per accompagnarlo è di altissimo livello ed è composta da musicisti di rango del calibro di Willie James Exon (chitarra), James Washington (organo), Roosevelt Pointer (basso) e Son Seals (batteria), ma la vera star, lo spettacolo da ammirare è King, al top della forma per tutta la scaletta. Le sue intuizioni rendono sporca e funky “Watermelon Man” di Herbie Hancock e tirano fuori tutta l’emozione da “Blues at Sunrise” uno dei cavalli di battaglia live. Elmore James e Jimmy Reed, non a caso suoi mentori, a tratti echeggiano, come si sente l’influenza dell’altro King, B.B., di cui viene ripreso un classico di fine anni Cinquanta, la superba "Please Love Me".

 

Un’altra caratteristica veramente speciale si coglie analizzando la liricità dei suoi guitar solo, pensati al pari di una seconda voce. “Suono la chitarra che canta, è così che l'ho sempre chiamata. Canto anche insieme alle mie note, in questo modo penso alla direzione in cui sto andando”, ha raccontato spesso ai critici e appassionati che gli chiedevano fin dove volesse e potesse spingersi nella ricerca di qualcosa di diverso. “Night Stomp” e la finale “Look Out” non fanno altro che confermare tale tragitto, dimostrano l’importanza relativa dei troppi decibel o della velocità fine a se stessa.

L’eccesso di protagonismo non fa parte del DNA del buon Albert, da sempre interessato all’emozione di un silenzio tra una nota e l’altra rispetto a una mitragliata di accordi. E questa sua prima apparizione al Fillmore non è solo uno show immortalato dal vivo sotto la produzione del grande Al Jackson Jr. (già ai suoi servigi come sessionman in Born Under a Bad Sign), c’è tutto il suo sentimento, è qualcosa di più profondo che non si può imparare su nessun libro di musica.

Così lo show di San Francisco si rivela un successo, fortunatamente in gran parte ascoltabile su disco, ma soprattutto spalanca le porte dello scrigno musicale di King a un pubblico completamente nuovo, giovane e bianco. Potere di Bill Graham, deus ex machina dell’epico locale, ma soprattutto parafrasando il titolo dell’album, Potere del Blues! La carriera del chitarrista afroamericano prosegue di gran lena nei decenni successivi, tra straordinarie esibizioni live e una manciata di lavori da ricordare, fra cui I’m in a Phone Booth, Baby (1984), la cui title track è una cover della canzone del suo pupillo Robert Cray, e Red House (1991), ove invece rende tributo a Jimi Hendrix.

Albert King si spegne il 21 dicembre 1992 a soli sessantanove anni per un improvviso attacco di cuore, anche se i suoi problemi di salute sono noti già da tempo. La sua straordinaria voglia di suonare il blues è comunque continuata fino alla fine: solo due giorni prima di lasciare questo mondo aveva tenuto un concerto memorabile a Los Angeles. Piace ricordarlo pensando a come affrontava con gioia, seppur affaticato, gli ultimi tour al termine degli anni Ottanta, felice in cima a un autobus da turismo Greyhound personalizzato con la scritta “I’ll Play The Blues For You”. Inimitabile Maestro.