Al momento non si vede la fine della pandemia e, nonostante l’ottimismo che da più parti ci si sente in obbligo di ostentare, la disponibilità dei vaccini non ci autorizza certo a pensare che di qui a poco torneranno i concerti.
È indubbiamente per questo che i live in streaming non si accennano a fermare. Li stiamo vedendo in tutte le salse e nonostante sia lodevole che le immagini amatoriali dei musicisti che suonano nella loro cucina e rispondono in diretta alle domande del pubblico abbiano lasciato spazio ad eventi costruiti professionalmente e sempre più disposti ad assomigliare ad una performance canonica, almeno nelle intenzioni, i dubbi rimangono e l’impressione di essere di fronte ad un surrogato non può essere in alcun modo fugata.
Aggiungiamo, a rincarare la dose, che qualunque escamotage volto a simulare una diretta sarà smascherato per quello che è: mera finzione, appunto. La performance dei Mogwai dal Tramway di Glasgow viene inizialmente pubblicizzata come un evento unico ma ci si mette poco a capire che non è così: tre orari diversi a seconda della zona del mondo in cui lo si guarda e, una volta effettuato l’accesso, una semplice schermata di un video caricato su YouTube, che ci permette già di vederne la durata complessiva.
Molto diverso da quanto diffuso dalla Rock Action nelle FAQ del giorno precedente, insomma.
Sono dettagli, comunque. Se insisto è solo per chiarire che, per quanto piacevole possa essere guardare un concerto davanti al computer o al televisore, soltanto uno squilibrato potrebbe pensare che un'esperienza del genere possa appagare la nostra fame di concerti.
E comunque il ritornello è il solito: per il momento c’è questo, prendere o lasciare.
I Mogwai arrivano a “As Love Continues” tre anni e mezzo dopo “Every Country's Sun” ma in mezzo ci sono state le colonne sonore per “KIN” e “ZEROZEROZERO”, un tipo di lavoro che gli scozzesi negli anni hanno portato avanti come una sorta di attività parallela ma che sempre di più ha contribuito a plasmarne l’impronta sonora.
Il programma di stasera prevede l’esecuzione integrale del nuovo album, che uscirà la settimana successiva e del quale sono stati anticipati per il momento due singoli.
Ho avuto modo di ascoltarlo una manciata di volte in anteprima ma ciononostante, la fruizione del concerto non è stata un'esperienza facile. La band di Stuart Braithwaite non è mai stata troppo legata a temi portanti di facile memorizzazione, preferendo evocare atmosfere piuttosto che far ruotare le canzoni su riff orecchiabili.
Questo disco conferma tutto sommato quello che sono divenuti con le ultime uscite: via del tutto le aggressività e le esplosioni sonore, largo all'evocazione di paesaggi desolati e spesso impersonali, costruendo strutture di suono mediante la sovrapposizione di strati, eppure dando sempre l’impressione di rimanere inafferrabili, come se la canzone in sé venisse vaporizzata.
A parte i due singoli “Dry Fantasy”, che presenta il tipico andamento a la Mogwai con tanto di tema centrale chitarristico ripetuto per tutto l’arco del brano e “Ritchie Sacramento”, che è interamente cantata e seppur fin troppo simile ad episodi del passato, riesce ad avere un ritornello sufficientemente catchy, il resto risulta decisamente contemplativo è sfuggente.
Ci sono momenti grezzi, dove le chitarre prendono il controllo e montano un crescendo che sfocia in un efficace Wall of Sound (“Drive The Nail”, “Ceiling Granny”, “Pat Stains”), altri dove vince l’elettronica e dove il Vocoder si ritaglia un certo spazio (“Here We, Here We, Here We Go Forever”, la complessa “Fuck Off Money”, che istintivamente mi è parsa una delle migliori in assoluto).
Per il resto, l’impronta dei cinque è sempre più che mai riconoscibile e non c’è niente che si discosti davvero dal terreno tracciato in questo ultimo stralcio di carriera.
Eppure, guai a dire che sono ripetitivi o che hanno esaurito l'ispirazione. Quando costruiscono le loro architetture su poche manciate di note e si lanciano all'inseguimento di una melodia appena intravista, portando l’intensità fino allo spasimo, non hanno ancora eguali. E questo anche se non picchiano più come una volta e se le loro celebri alternanze pieno/vuoto; quiete/tempesta sono solo un lontano ricordo.
Impossibile, anche davanti a uno schermo, non rimanere rapiti dal fascino sempiterno di questa solitudine glaciale rischiarata per un istante dalla memoria di un fuoco.
E quando, terminata la scaletta del disco, vanno a ripescare un brano non proprio usuale come “How To Be a Werewolf” per poi lanciarsi nella classicissima “Like Herod” (che fa sempre la sua porca figura anche se non è più così violenta come nei primi anni), la voglia di essere lì, sotto al palco con loro, diviene davvero più forte che mai.
Il tutto impreziosito dalla regia efficace di Antony Crook, che sfrutta al meglio il fascino raccolto della location, con una scenografia spoglia che più non si potrebbe, luci basse, flash improvvisi e una band quasi sempre sfocata in controluce.
E poi quegli applausi finali, quasi sicuramente dei tecnici e dei pochi amici e famigliari presenti, che per un attimo ci illudono che non sia tutto finto e che si possa tornare a vederle davvero di persona, queste cose qui.