Alla fine i proprietari del Live Club di Trezzo d’Adda salgono sul palco per annunciare che i concerti sono ormai ripresi e che i biglietti possono essere comprati in prevendita senza problemi. Non è tutto vero, dal momento che le assurdità e le contraddizioni del decreto sulle capienze, unitamente alla mancanza di uniformità nelle norme tra i vari paesi europei, hanno portato allo spostamento di interi tour. Paradossalmente però, è proprio per questi motivi che la comunicazione fatta da chi porta avanti uno dei migliori club ad oggi esistenti in Italia (e uno dei pochi rimasti, verrebbe da dire con una battuta polemica) non suona così assurda: in un momento di incertezza totale, quando letteralmente non si capisce più a che punto siamo arrivati con questa pandemia, i Pineapple Thief trovano il coraggio e il sangue freddo (oltre ad un pizzico di follia, direte voi) per iniziare un tour europeo e lo fanno proprio con quattro date nel nostro paese. Quella in Lombardia è la prima in assoluto e per un caso singolare che speriamo sia di buon auspicio, cade esattamente nel giorno in cui, due anni fa, nel nostro paese ogni evento dal vivo di fatto si fermò: quello dei Big Thief a Milano fu infatti solo il primo di una lunga lista di annullamenti che da lì in avanti avrebbe costituito parte della nostra normalità.
Ma dicevamo dei Pineapple Thief. La band di Bruce Soord riprende da dove aveva lasciato, dal tour di supporto a Versions of the Truth, che essendo uscito in periodo Covid non ha mai potuto essere suonato degnamente dal vivo. Proprio per questo il gruppo lo scorso anno ha pubblicato Nothing But the Truth, un doppio cd/Blue Ray contenente la registrazione di un live senza pubblico trasmesso in streaming (iniziative che speriamo davvero di non vedere mai più nell’immediato futuro) e che avrebbe probabilmente costituito l’ossatura dell’effettivo tour, se fosse partito.
Si sono finalmente riscattati quest’autunno, con una serie di date in territorio inglese e quello che si inaugura stasera può essere davvero considerato un nuovo inizio.
Versions of the Truth è stato un album importante, degno seguito di due dischi come Your Wilderness e Dissolution, che hanno riportato il collettivo del Somerset ai livelli degli esordi e gli hanno fatto guadagnare una più consistente fan base. Ha fatto senza dubbio tanto l’ingresso in pianta stabile di Gavin Harrison, batterista dei Porcupine Tree e figura di riferimento di tutto il mondo Prog (ha suonato anche con King Crimson e Fates Warning, tra gli altri) ma sarebbe assurdo non menzionare un songwriting di altissima qualità, in grado di coniugare alla perfezione le melodie del Pop contemporaneo con la sofisticatezza del Neo Prog di marca Kscope.
Quando arrivo sul posto trovo un locale già bello pieno, con un pubblico che rumoreggia eccitato in vista dell’inizio: è indubbio che gran parte dei presenti sia qui per la presenza di Harrison (che, tra le altre cose, vanta un lungo filotto di collaborazioni in studio e dal vivo con artisti nostrani, da Claudio Baglioni ad Eros Ramazzotti, passando per Battiato, Alice, Fiorella Mannoia ed Eugenio Finardi; dubito però che questa sera tutte questa parte del suo curriculum sia oggetto d’interesse del pubblico) ma è evidente che in Italia i Pineapple Thief abbiano un bel seguito, cosa che fa ben sperare per le altre tre date che si terranno nei giorni successivi (Treviso, Roma, Firenze).
Apertura non entusiasmante per i Trope, la band capitanata dalla cantante Diana Studenberg, che ha esordito lo scorso anno con Eleutheromania. Sono in tour in una formazione inedita a due, chitarra e voce, e l’intimità acustica non contribuisce certo a valorizzare canzoni che avrebbero bisogno di ben altro organico. Voce senza dubbio interessante, qualche buona idea ma nel complesso un rock alternativo di matrice Nineties che non presenta grandi aspetti di novità e che induce alla noia dopo un paio di brani.
I Pineapple Thief attaccano con “Versions of the Truth”, seguita immediatamente da “In Exile” e fanno capire senza troppi fronzoli di essere in splendida forma. Se c’è stata della ruggine in questi tre mesi di stop forzato, non ce ne siamo accorti. Complice anche una resa acustica al limite della perfezione (in questo il Live Club è sempre stato una garanzia), il quintetto può dispiegare tutta la forza e l’eleganza della propria musica: con Gavin Harrison grande mattatore dietro le pelli, un drumming geometrico e mai sovrabbondante, il bassista Jon Sykes inarrestabile nel suo ruolo propulsore, un Steve Kitch piuttosto contenuto alle tastiere e Beren Matthews alla chitarra, già ben integrato nell’insieme nonostante sia nel gruppo solo dallo scorso anno. Accanto a loro, Bruce Soord canta e suona con grande naturalezza e limpidezza, leader e autore principale di una band che non è comunque mai una sua personale emanazione e che sul palco è chiaramente un prodotto della sinergia dei suoi componenti.
La proposta, lo sappiamo, si è fatta col passare degli anni sempre più vicina al Pop più raffinato e ad un certo tipo di Art Rock, un’evoluzione artistica non così dissimile da quella degli stessi Porcupine Tree. L’elemento progressivo è però rimasto ed è così che nella setlist di stasera (a parte un paio di cambi identica a quella di questo autunno) convivono episodi dall’assoluto potenziale commerciale (“That Shore”, “Far Below” e soprattutto una “Driving Like Maniacs” che, l’avessero scritta act più blasonati, sarebbe divenuta una hit dai numeri impensabili) ed altri dalla costruzione più complessa che sono però ugualmente in possesso di una grande immediatezza melodica (“Our Mire”, tra le migliori dell’ultimo disco, la lunga “White Mist”, forse il momento più alto della serata, nonché il classico “The Final Thing on My Mind”, suonata durante i bis). Considerato che la stragrande maggioranza dei 16 brani in repertorio proviene dagli ultimi lavori in studio, direi che hanno offerto una fotografia realistica di quel che sono ora.
Le novità, lo dicevamo, sono due: “No Man’s Land” (siparietto divertente tra Bruce e Gavin, col primo che annuncia “Our Mire” e il secondo che lo chiama dal drum kit e gli segnala che invece prima avrebbero dovuto suonare questa), malinconica e a tratti commovente nella sua parte iniziale, impreziosita da una prova vocale superlativa, e una coda dove il gruppo si lascia andare a briglie sciolte. E poi la nuova versione di “Give It Back”, in anteprima assoluta (è uscita proprio il giorno stesso) title track del lavoro che arriverà a maggio, contenente le rivisitazioni di alcune tracce del passato. Questa in particolare, che originariamente figurava su “All The Wars”, è nel complesso più carica e distorta di quella del 2012, la componente Metal già presente ne risulta senza dubbio potenziata.
Per il resto i pezzi proposti sono i soliti, la maggior parte dei quali presentati anche nel live senza pubblico che è finito su “Nothing But the Truth” e funzionano tutti benissimo, da “Demons” a “That Shore”, da “Uncovering Your Tracks” a “Wretched Soul”.
Un'ora e mezza di livello altissimo, un qualcosa di cui tutti noi avevamo un grande bisogno dopo tutte le incertezze e le delusioni degli ultimi mesi. Band davvero splendida, i Pineapple Thief: avrebbero senza dubbio meritato maggior fortuna e forse anche qualche battuta d’arresto in discografia li ha penalizzati. Adesso sembrano essersi rimessi in carreggiata e, anche con l’ingresso di Gavin Harrison, aver acquisito una marcia in più. Nel frattempo gli auguriamo un felice proseguimento di tour.