E così finalmente sono riuscito a vedere gli U2. La mia storia coi concerti del gruppo è tormentatissima: li seguo dai tempi di “Zooropa”, anche se hanno iniziato davvero a piacermi solo dopo l’uscita di “Pop”. Se si eccettua il carnaio di Reggio Emilia, a cui non ero per niente interessato, dal tour successivo avrei potuto andare a vederli sempre, considerato soprattutto che la reperibilità dei biglietti è diventata un problema serio solo negli ultimissimi anni.
Eppure, qualcosa in me ha sempre detto no. A volte il costo eccessivo, altre il rifiuto categorico di stare sugli spalti in uno stadio, altre la lontananza geografica. Sta di fatto che io gli U2 dal vivo non li avevo mai visti. E mi è sempre sembrata una lacuna che andava colmata, prima o poi. Mi sono perso i R.E.M. per ragioni fondamentalmente di ignoranza (leggi: ho iniziato ad amarli davvero solo quando il loro ultimo tour era già passato da noi) ed è un qualcosa che rimpiangerò per tutta la vita. Non volevo fare lo stesso per loro che, per quanto gli si possa gettare merda addosso (a volte anche in maniera più che giustificata) rimangono pur sempre uno dei più grandi gruppi della storia del rock.
È vero. Vederli oggi forse ha poco senso: il periodo migliore è passato, sia dal punto di vista fisico sia da quello artistico. Eppure non è detto. Di sicuro c’è che i quattro irlandesi non sono mai stati una band da greatest hits o da Amarcord. Le celebrazioni di “The Joshua Tree”, due anni fa, hanno rappresentato un’eccezione che comunque, a detta di chi c’era, è stata svolta con saggezza ed equilibrio.
Gli ultimi due dischi in studio hanno poi affrontato l’ambizioso progetto di riprendere in mano tutto il filo della loro storia, quasi per stupirsi nuovamente di un percorso che dalle periferie di Dublino li ha portati in tutto il mondo, li ha cambiati ma li ha allo stesso tempo fatti rimanere gli stessi di sempre (che la line up non sia mai cambiata in tutti questi anni è solo un indicatore di questa dimensione genuina che li ha sempre contraddistinti). Ma non è certo un vagare passivo tra i ricordi: piuttosto, è un nuovo progetto che ha al centro la propria narrazione autobiografica, un qualcosa che dopo quasi 40 anni di carriera sarebbe abbastanza assurdo non fare. Ma chiunque segua la band da tempo, sa che i cliché di comodo le sono sempre stati estranei. E dunque, anche se i tempi d’oro sono passati, vedere gli U2 nel 2018 potrebbe ancora avere un senso.
A questo giro, però, prendere i biglietti era veramente impossibile. Non ci ho neppure provato, consapevole del fatto che ormai, con lo strapotere di Ticketone e Livenation, certi eventi risultano praticamente blindati. I casi della vita, tuttavia, sono infiniti: ho rimediato un biglietto un paio di giorni prima in maniera del tutto fortuita e così giovedì 11 ottobre ero lì, ad assistere al primo dei quattro concerti che Bono e compagni hanno programmato nel nostro paese.
È stato bello. Non sono uscito in estasi, non mi sono strappato i capelli, non ho pianto di commozione. Dopotutto gli U2 li amo molto ma non sono tra le mie band della vita. E poi i capelli non me li strapperei in ogni caso. Detto questo, è stato un bel concerto. Non sarà tra i migliori tre visti quest’anno, forse neppure tra i migliori cinque ma potrebbe senza problemi entrare tra i primi dieci, quindici al massimo. Gli U2 dal vivo non li avevo mai visti di persona ma di concerti in dvd ne ho visionati a decine, so come suonano, so cosa suonano, un minimo di termine di paragone mi sento di averlo. E dico quindi che questo spettacolo è uno spettacolo bello, intelligente e probabilmente tra i migliori che abbiano messo in piedi dopo lo Zoo Tv, quando l’unanimità dei consensi è cominciata a cadere ed hanno iniziato a polarizzare critica e pubblico in un’eterna danza che va avanti tuttora.
Hanno messo su un allestimento importante ma lontano dalle cattedrali del passato. Diciamo una via di mezzo tra la grandeur scenografica degli anni ’90 e la ritrovata minimalità del periodo “All That You Can Leave Behind”. Un palco diviso in tre sezioni, con un main stage canonico, un corridoio contenuto all’interno di uno schermo dove i nostri hanno iniziato a suonare, completamente nascosti dalle immagini e dove poi hanno eseguito qualche altro brano nella parte iniziale dello show, ed un piccolo palco circolare all’estremità opposta, dove si è svolta tutta la fase centrale, in una sorta di finto ritorno agli scantinati dell’adolescenza.
Attorno, le solite immagini a sfondo politico, con un messaggio europeista decisamente esplicito, anche se l’impressione è stata che, rispetto ai primi anni Duemila, dove la retorica di Bono su questi temi pareva fuori controllo e anche piuttosto stucchevole, sia stato ora ritrovato un certo equilibrio, con concetti che vengono ribaditi ma senza indulgere troppo sul lato sentimentale della faccenda. Semmai, più spazio ha avuto il racconto autobiografico, che ha ripreso le fila del precedente “Songs of Innocence”, nonostante nessuno dei brani di questo disco sia stato ripreso (ce n’erano due all’inizio della leg europea ma poi sono stati abbandonati). È arrivato un divertente cartone animato durante il break centrale del concerto, è ritornato il Mr. Macphisto che caratterizzava gli show dello Zoo Tv, in più Bono ha speso diversi minuti per pronunciare diversi monologhi, a tratti anche interessanti ma spesso decisamente superflui, che hanno un po’ spezzato il ritmo dello show.
A parte questo, la musica è stata assoluta protagonista. Il Forum di Assago, lo sappiamo benissimo, ha una resa acustica di merda. Eppure, nei 23 anni che lo frequento, mi è anche capitato di sentire bene, qualche volta. Purtroppo, l’altra sera non entrerà nel computo. Faceva cagare, tremendamente cagare. Un audio confuso e impastato che ha ricordato a tratti il peggior Palalido (e chi c’è mai stato sa che cosa sto dicendo) soprattutto in quelle fasi dove il gruppo premeva sull’acceleratore ed eseguiva brani dallo spettro sonoro pieno.
L’inizio, con le nuove “The Blackout” e “Lights of Home” (che non sono neppure ‘sti pezzi clamorosi, tra l’altro) è stato disastroso. Poi a ruota sono arrivate “I Will Follow” e “Gloria” (“Gloria” al mio primo concerto. Ho avuto un po’ di culo, sì), la chitarra di The Edge è salita in cattedra (la chitarra di The Edge è stata la cosa più bella di tutte, va detto subito) e le cose si sono un po’ sistemate.
Poi sapete come funziona: l’orecchio un po’ si abitua (e il mio poi non è neppure mai stato così fine), nel prosieguo certi dettagli si aggiustano e allora si può arrivare a dire che non è stato poi così male. La verità è che un gruppo come il loro in un posto così è da denuncia immediata, poche storie.
Ma ripeto: è stato un buon concerto. Loro non hanno mai suonato particolarmente bene ma nel tempo si sono rodati e anche questa sera hanno offerto una performance di tutto rispetto. Bono, che da quindici anni a questa parte è il vero punto interrogativo quando si deve valutare un loro show, si è comportato egregiamente. Sostenere che sia quello di un tempo sarebbe una menzogna ma la sua voce ha retto benissimo e in diversi passaggi è stato anche emozionante. Non so come canterà nei prossimi giorni ma penso di averlo trovato in una serata positiva.
La scaletta è stata ottima. Si sa, loro non la cambiano praticamente mai all’interno di uno stesso tour, per cui sapevo perfettamente cosa aspettarmi e, se ci sono andato, è stato anche perché ero ben consapevole di che cosa avrei ascoltato. Certo, è stato il primo tour senza pezzi da “The Joshua Tree”. Mi è dispiaciuto, ovvio. “Where the Streets Have No Name” la vorresti sentire almeno una volta nella vita (“With Or Without You” anche no, non avrei retto l’isteria del pubblico) ma è significativo che abbiano fatto questa scelta. È un messaggio ben preciso: “Hey, quel disco lo abbiamo suonato per sei mesi ogni sera, adesso ci siamo rotti le scatole, lo facciamo riposare per un po’, ok?”. Significa che vogliono suonare per gente affezionata, non per casuali che vanno lì per mandare agli amici il vocale coi pezzi più famosi. Quindi tanto dispiacere ma anche tanto di cappello, se mi avete capito.
A me il disco nuovo è piaciuto. Ne ho anche parlato su queste pagine, in maniera talmente tanto lusinghiera che alcuni mi hanno spietatamente preso per il culo. Non rinnego nulla. È un disco gradevole e a tratti addirittura ispirato. Alcuni pezzi sono superflui ma questa sera hanno anche suonato cose belle: la versione acustica di “You’re the Best Thing About Me”, per esempio; o la conclusiva, dolcissima “13 (There is a Light”), con The Edge alle tastiere e Bono che si è prodotto in una delle sue prove migliori della serata.
Hanno infilato qualche classico importante: “I Will Follow”, “Pride”, “New Year’s Day” (dove una gigantesca bandiera dell’Unione Europea ha fatto chiaramente capire in che modo fosse stato attualizzato il messaggio del pezzo), “One” (che per me è una delle canzoni più belle di sempre, sì, avete capito bene di sempre), affiancato purtroppo a qualche porcheria per pagare pegno a chi ascolta solo la radio (“Vertigo”, “Elevation”; se vi dico che sono stati tra i momenti più partecipati secondo voi cosa vi sto dicendo?).
Hanno suonato un bel po’ di pezzi da “Achtung Baby”, che per chi scrive è il loro capolavoro ma che anche per loro è stato significativo, non solo perché ne ha aumentato a dismisura il conto in banca. Bono ha fatto più volte riferimento a questo disco, parlando, e già da questo si è capito molto. Hanno quindi fatto “Zoo Station” (uno dei riff più belli della loro carriera), “Even Better Than the Real Thing”, hanno fatto “One” (l’ho già detto) ma soprattutto hanno ripreso, dopo anni e pochissime ed isolate esecuzioni, “Who’s Gonna Ride Your Wild Horses” e addirittura “Acrobat” (probabilmente mai suonata nei precedenti tour ma avrei bisogno di qualche appassionato nerd che me lo confermasse). Ecco, “Acrobat” è forse la mia preferita in assoluto, del loro repertorio. E sentirla al mio primo concerto, assieme a quell’altra che amo in modo particolare, in due esecuzioni decisamente superlative… beh, potete immaginare che goduria sia stata. Una goduria solo parzialmente rovinata dal fatto di vedere che attorno a me era il mortorio. La gente si sedeva, metteva via i telefonini, parlottava, alla peggio stava zitta col fare imbronciato. Le conoscevano in pochi, pochissimi forse. Ora, non voglio fare anch’io il nerd della situazione ma, ragazzi, se “Acrobat” viene accolta da un silenzio indifferente e su “Get Out Of Your Own Way” (bella, per carità) saltano tutti come pazzi, abbiamo un problema. E pure bello grosso, secondo me.
Ad ogni modo io ho goduto e ho goduto anche quando hanno fatto “Stay (Faraway So Close”), con Bono e The Edge da soli sul corridoio centrale, raggiunti dopo la prima strofa dagli altri due, col pezzo che è diventato meravigliosamente full band.
Hanno infilato pure “City of Blinding Lights”, che è uno dei brani più belli di “How To Dismantle An Atomic Bomb”, disco che ha fatto cagare a molti ma che a mio parere contiene degli ottimi pezzi.
Quindi, in conclusione, sono stato contento. Gli U2 sono una band controversa, per certi versi sopravvalutata ma pagano lo scotto di aver avuto troppo successo commerciale: chi ha troppo successo commerciale non sarà quasi mai valutato lucidamente, in un modo o nell’altro. Un po’ ne devono essere consapevoli anche loro, visto che in questo nuovo spettacolo il tema del prezzo da pagare per essere rockstar è presente in maniera esplicita.
Alla fine, però, hanno vinto loro. Sarà pur vero che hanno smesso di dire cose importanti dopo il 1991 (io sposto l’asticella al ’96 ma non siamo così lontani) ma è altrettanto evidente che ci abbiano sempre provato, in un modo o nell’altro.
Oggi sono una band enorme, un’azienda, in pratica, che fattura tanto ma che non ha dimenticato come si tiene un palco e come si suona un bel concerto rock. Non so se riuscirò a tornare a vederli (non è neppure scontato che ci saranno altri tour) ma so che ho colmato una lacuna importante facendolo nel migliore dei modi. Non credo sia poco.