È probabilmente un periodo decisivo per lo stato della musica dal vivo in Italia: mentre Stati Uniti e resto d’Europa riaprono ai concerti senza particolari timori e restrizioni, consapevoli che Green Pass e vaccinazioni siano misure più che sufficienti a garantire un certo ritorno alla normalità, dalle nostre parti il famigerato passaporto verde sta rappresentando un’ulteriore misura di limitazione, visto che le capienze degli eventi all’aperto sono rimaste esattamente le stesse di quando ancora i vaccini non erano disponibili. Se n’è accorto Cosmo, che già prima del Decreto del 26 luglio aveva annunciato i concerti bolognesi dell’1, 2 e 3 ottobre, in modalità pre Covid e con ingresso consentito previo certificato vaccinale o tampone rapido.
La notizia che la cosa non gli è stata concessa (il CTS si pronuncerà su eventuali riaperture solo il 30 settembre, troppo tardi per poter mettere in moto una macchina di quelle dimensioni) arriva proprio mentre sono in viaggio verso Bologna, e l’imminente concerto a cui mi sto preparando ad assistere assume a questo punto tutto un altro significato.
L’impressione è infatti che le cose andranno avanti così ancora per un bel po’. La musica dal vivo e la cultura in generale interessano poco il nostro paese, da un anno e mezzo vittima di una politica che utilizza l’eccessiva cautela più come un’arma per non sbagliare mossa e non essere messa in alcun modo sotto accusa, piuttosto che come strategia per ripartire e tornare quanto prima ad una vita normale. Con la chiusura dei locali (il Magnolia, nella stessa giornata di Cosmo, annunciava la cessazione delle attività, almeno fino a quando le normative saranno quelle in vigore) e i costi assolutamente insostenibili per i promoter, la sensazione è che vedere concerti nei prossimi mesi (se andrà male, anche nei prossimi anni) sarà praticamente impossibile.
È in questo contesto che il passaggio dei Notwist in Italia, il secondo in pochi mesi, diviene cruciale: in un’estate piena soprattutto di act italiani, che si possa godere di un gruppo di questa caratura rappresenta un regalo enorme quanto inatteso, che va messo accanto a quello già ricevuto dal TOdays Festival con la sua carrellata di band britanniche e dal genovese Balena, col meraviglioso show di Apparat ad inizio mese (parlo di quelli che ho visto io ma in giro c’è stato anche qualcos’altro, tipo il Sexto Nplugged).
Quando arrivo sul posto però, tutto questo rischia di sfumare: a Bologna c’è un brutto temporale in arrivo e sembra che non sarà una cosa leggera; circa un’ora prima la pioggia è iniziata a scendere ma non sembrava così drammatico, niente che non si potesse superare con una buona mantella addosso. Purtroppo il palco dell’Arena Puccini, situata all’esterno del celebre Locomotiv, è totalmente scoperto, privo di qualsiasi protezione, ragion per cui anche solo poche gocce costituirebbero di per sé un motivo di annullamento. In effetti la scena che ci si presenta all’ingresso non è delle più confortanti: diverse centinaia di persone in piedi nel parco in cui si trova la venue, in attesa di ricevere istruzioni dagli organizzatori. E devo dire che mi sarebbe piaciuto che Speranza e Franceschini (gente che dubito fortemente sappia qualcosa riguardo alla musica dal vivo) fossero lì a guardare: in quale altro contesto, mi ha fatto giustamente notare il mio compagno di viaggio, puoi tenere cento e passa persone ferme sotto l’acqua ad aspettare il via libera, in un paese dove basta un aereo in ritardo di mezz’ora per scatenare ire e tafferugli? Forse sarebbe il caso di aggiornare i propri punti di vista ed ammettere che, per quanto non maggioritario come chi si reca a fare acquisti nei centri commerciali, anche il pubblico dei concerti merita di essere preso in considerazione dalla politica.
Qualcuno dal cielo nel frattempo deve averci pensato perché la pioggia smette improvvisamente di cadere, le nuvole si diradano un po’ e si decide che ci siano le condizioni per provare a suonare.
Tempo di fare un po’ di pulizie sul palco e di togliere i teloni che coprivano i vari strumenti e si comincia: un po’ di ritardo ma ancora in linea con la tabella di marcia.
Lo show prende l’avvio da quella “Into Love/Stars” che apre anche il nuovo album Vertigo Days, il primo in sei anni, superiore al precedente Close to the Glass (che era già comunque un gran lavoro), probabilmente l’unico episodio della loro discografia degno di guardare negli occhi il capolavoro Neon Golden. Il concerto, che prosegue con la bella cavalcata di “Exit Strategy to Myself”, è lo specchio fedele di un lavoro che non presenta nessuna novità significativa nella proposta ma mostra una band che dopo più di vent’anni è ancora in grado di maneggiare la propria materia sonora in modo tale da colpire l’ascoltatore e da spostare sempre più in alto l’asticella qualitativa. Sul palco sono in sette, dal momento che si è aggiunta Theresa Loibl al sassofono, che ha partecipato anche alle registrazioni del disco, e fanno quello che bene o male hanno sempre fatto: producono bellezza. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, un sapiente dosaggio della componente elettronica con quella analogica, un elemento percussivo particolarmente sviluppato (xilofono, pad e batteria sono un tutt’uno e garantiscono una continua variazione di dinamiche), un suono che è spesso secco e scarno ma sa essere all’occorrenza anche orchestrale o a tratti addirittura ruvido e spigoloso. Ciliegina sulla torta: un libero flusso tra un brano e l’altro o all’interno dello stesso, un giocare su pulsazioni e dilatazioni, insistendo sulla ripetizione dei temi portanti e lasciando libere le canzoni di assumere di volta in volta forme nuove, per poi ritornare immancabilmente al punto di partenza.
Ho visto tantissimi concerti in vita mia e quelli del collettivo tedesco saranno per sempre nella parte alta della lista: nel modo in cui portano la loro musica sul palco c’è una combinazione di emozione e sofisticatezza che non è esattamente all’ordine del giorno ed è propria solo di chi ha una passione viscerale per la musica, senza barriere o etichette di sorta. Kraut rock, classica contemporanea, Free Jazz, Dub, rock alternativo: c’è questo e altro nelle loro canzoni e il passaggio spesso è impercettibile, tanto è profonda la continuità. Si veda, a titolo di esempio, la lunga sequenza dedicata al nuovo disco (che tra una cosa e l’altra è stato suonato quasi per intero), con la ballata semiacustica “Where You Find Me” che si dissolve nel minimalismo elettronico di “Ship”, semplicemente uno dei loro brani più belli di sempre, con le vocals di Saya portate avanti un po’ da Markus Acher e in parte riprodotte in base; poi l’atmosfera si fa cupa con “Into the Ice Age” per sfociare nella quasi Folktronica “Oh Sweet Fire”.
Il resto della scaletta non desta sorprese, è una carrellata dei loro più importanti cavalli di battaglia, quelli che nella dimensione live godono della resa migliore e a parte “Gravity” (bellissimo il modo con cui si indurisce e si velocizza a poco a poco, per sfociare in una sorta di esplosione rumorosa), “Kong” ed una sempre emozionante “Into Another Tune”, sono tratte per lo più da Neon Golden (anche se quello che è universalmente riconosciuto come il capolavoro del gruppo è stato nel complesso più rappresentato nel tour precedente): inutile citare i pezzi, visto che sono tutti stranoti ma è impossibile staccarsi dalla bellezza ipnotica di “Pick Up the Phone” o dal ritmo trascinante di “One With the Freaks”, preludio alle divagazioni elettroniche di “This Room”. C’è un’unica traccia più o meno inattesa ed è la strumentale “Object 11”, durante la quale compare anche una tuba. “Messier Objects” l’avevano suonato tutto dal vivo nell’autunno del 2019, in Italia erano passati da Rivoli ma io purtroppo non ero riuscito ad andare; la prendo come un premio di consolazione.
Durante il roboante finale di “Gravity” le nuvole, che nel frattempo si erano ricompattate con una velocità sorprendente, lasciano cadere le prime gocce di pioggia. Non è niente di che ma dal muoversi dei roadie attorno ai musicisti si capisce che c’è poco tempo prima che tutto collassi. Allo sfumare del pezzo i sette si defilano quasi di corsa, mentre tastiere e Synth vengono coperti alla bell’e meglio. Si teme il peggio e, anche se dopo tutto ci siamo goduti un main set di ottanta minuti, il dispiacere per essersi persi i bis è impossibile da cancellare (anche perché sapevamo tutti che ci sarebbe stata “Pilot”, vera e propria summa di quello che i tedeschi sono in grado di combinare sul palco). E invece, contro ogni previsione, eccoli di ritorno per regalarci almeno una sentita “Consequence”, versione un po’ frettolosa, viste le circostanze, ma sempre di grande effetto. L’ultima volta che li avevo visti, a Milano nel 2017, per ragioni inesplicabili non l’avevano suonata e così sono ancora più contento che sia arrivata.
Poteva andare malissimo e invece abbiamo avuto quel tanto di tregua che è servita per goderci un concerto bellissimo, un modo perfetto per concludere l’estate, nonostante un palco fin troppo stretto ed una resa sonora non proprio impeccabile.
Cosa succederà ora è impossibile dirlo, anche se pare molto difficile che la politica dia finalmente quella risposta che da tempo ci attendiamo. Ci auguriamo davvero che le cose cambino perché, finché perdurerà questa situazione, l’unico modo per vedere ancora gruppi come questo sarà andare a farsi un bel weekend all’estero.
Photo courtesy: Lino Brunetti