Che il Barezzi sia tornato in presenza è una delle notizie più belle di questo secondo autunno di pandemia: difficile prevedere come andrà nei prossimi mesi ma vedere il Teatro Regio di Parma nuovamente pieno di gente pronta a godersi un concerto, è una di quelle scene che scaldano il cuore.
Quest'anno la rassegna ha presentato un programma ancora più ricco del 2019, l'ultima edizione ad essersi tenuta in condizioni normali. Tre giorni, dal giovedì al sabato, con artisti importanti come Carmen Consoli, Iosonouncane e Fontaines D.C., mentre i tradizionali spettacoli del Ridotto hanno avuto come unico filo conduttore quello di omaggiare Franco Battiato che proprio qui, in occasione della prima edizione del festival, nel 1986, presentò in anteprima la sua opera "Genesis".
Purtroppo causa impegni lavorativi ho potuto essere presente solo all'ultima giornata, quella del sabato, ma ne è valsa comunque ampiamente la pena.
Alle 16 nel Ridotto è di scena Alessio Bondì, cantautore palermitano con tre dischi all'attivo (l’ultimo, Maharìa, è uscito a giugno) che propone uno spettacolo dal titolo “La Sicilia di Battiato”. Nella solita suggestiva cornice, col pubblico seduto per terra, c’è lui in compagnia della chitarra acustica, a suonare pezzi del suo repertorio, alternandoli ad alcuni episodi del Battiato siciliano. Alle obbligatorie “Veni l'autunnu” e “Stranizza d'amuri” si affiancano episodi meno conosciuti come “Strade parallele” e “'U Cuntu” o a classici cantati in italiano come “Mal d'Africa” e “Giubbe Rosse”, presentata quest’ultima in una suggestiva versione spoken word. Non particolarmente entusiasmanti gli episodi originali, anche se quelle di “Granni granni” e “Ave Maria al contrario” sono state due esecuzioni davvero toccanti; molto divertente poi “Vucciria”, storia surreale ambientata nel celebre mercato di Palermo, raccontata con grande ironia e partecipazione. In generale un'attitudine spontanea e genuina, un atteggiamento positivo che ha decisamente conquistato il pubblico.
Alle 18.30 va invece in scena Filippo Destrieri, collaboratore della prima ora di Battiato, con lui in tutta la fase della cosiddetta “avanguardia” e nei primi due dischi dell’esplosione commerciale, “La voce del padrone” e “L'arca di Noè”. Non è un concerto vero e proprio, quanto una sorta di percorso fatto di canzoni, filmati, letture e interviste, che ripercorrono in maniera impressionistica piuttosto che cronologica, l'itinerario dell'artista siciliano attraverso le sue composizioni elettroniche. Momenti da “Foetus”, “Pollution”, “Sulle corde di Aries”, “Click”, compresa una rara “Legione straniera” tratta dall'omonimo disco di Giusto Pio del 1982. Ci sono delle animazioni video, delle fotografie e delle immagini di repertorio, mentre Filippo suona dal vivo sopra la base originale, voce compresa. Un’occasione stupenda per riscoprire un periodo nominato da tanti ma conosciuto bene solo da pochissimi; al di là di tutti i luoghi comuni su quanto fosse “avanti” Battiato con la sua musica, la possibilità di confrontarsi direttamente con queste composizioni che, in effetti, a quasi cinquant’anni dall'uscita, non hanno perso un briciolo del loro fascino, è stata davvero un grande regalo.
C’è giusto il tempo di mangiare qualcosa prima che arrivi l'ora dei Fontaines D.C. Il Regio nel frattempo si è riempito in ordine di posti, palco e platea, ed è superfluo dire quanto sia bello vedere finalmente un colpo d'occhio del genere. La data è sold out già da diverse settimane e non fosse stato per il decreto di fine ottobre che ha ampliato in extremis le capienze dei teatri, molta più gente sarebbe rimasta fuori. Personalmente attendevo questo appuntamento da due anni: dopo essere rimasto folgorato dal debutto degli irlandesi nel 2020 e aver goduto dell'altrettanto strabiliante A Hero's Death, la pandemia ha fatto saltare più volte tutte le date che i nostri avrebbero dovuto tenere nel nostro paese ed erano rimasti così gli unici, tra i principali esponenti di questa sorta di New Wave del Post Punk, che non avevo ancora potuto vedere dal vivo.
Si inizia poco dopo le 21, con gli speaker che diffondono le note di “I'll Be Long Gone” di Boz Scaggs e i cinque che, come gli Smiths dei bei tempi andati, portano mazzi di fiori che offrono gentilmente alle prime file. Grian Chatten indossa una maglietta degli amici Whipping Boy, la cui “We Don't Need Nobody Else” è stata trasmessa poco prima nella playlist che ha allietato l'attesa.
Il primo brano in scaletta è “A Hero's Death” e l’impressione è che partano in sordina: esecuzione molto precisa, suoni nel complesso nitidi, compattezza delle seconde voci, ma tutto un po’ troppo patinato e con poca spinta. La successiva “A Lucid Dream” conferma i sospetti: il brano in sé è bellissimo ma non c’è il tiro che ci si attenderebbe, oltre che la prova vocale, tutt’altro che impeccabile, di certo non aiuta.
Le cose migliorano con le successive “Sha Sha Sha” e Chequeless Reckless” e pensiamo quindi di aver capito dove stia il problema: i brani del nuovo disco sono stati suonati troppo poco (è uscito in piena pandemia e il tour è appena cominciato) e la loro maggiore ricercatezza a livello formale e di atmosfere li rende senza dubbio meno d'impatto, meno facili da inserire nel contesto di un loro live. Mi pare infatti significativo che, se episodi come “Living in America”, “Televised Mind” e “I Don't Belong” appaiono nel complesso ben riusciti, uno come “Love is the Main Thing”, indubbiamente tra i più importanti del disco, sia stato lasciato fuori, segno che i nostri non hanno ancora completamente trovato la quadra del nuovo repertorio.
Al di là di queste problematiche, è fuor di dubbio che siamo di fronte ad una band straordinaria, già perfettamente rodata in sede live. Un batterista pazzesco, Tom Coll, che fa cose semplici ma tremendamente efficaci e che mantiene costantemente il ritmo alto e serrato; un bassista, Conor Deegan III, che lo asseconda alla grande e spesso e volentieri sconfina dal mero ruolo della sezione ritmica per andare ad affiancare le linee delle chitarre; due chitarristi formidabili, Carlos O'Connell e Conor Curley, capaci di infondere personalità ad ogni canzone con solo un paio di note e un frontman di razza come Grian Chatten, da molti paragonato a Ian Curtis ma a mio parere molto diverso (anche se bisognerebbe aver visto i Joy Division dal vivo per poter giudicare davvero): completamente padrone del palco, che percorre più volte in lungo e in largo, atteggiamento sprezzante da hooligan e piglio carismatico di uno che fa questo lavoro da vent’anni, questo ragazzo giovanissimo è una delle ragioni del perché i Fontaines D.C. potrebbero davvero diventare una band enorme.
Man mano che si va avanti l’intensità cresce e il pubblico impazzisce, stare seduti diventa impossibile (per fortuna io sono sistemato in un palco laterale e posso stare tranquillamente in piedi ad agitarmi) e le prime file si accalcano sotto il palco.
La prova dei cinque è potente e precisa, pulita nei suoni e letale nell'impatto, con l'apice raggiunto dal trittico composto da “Hurricane Laughter” (letteralmente devastante), “Too Real” e “Big” e con una terremotante “Boys in the Better Land” a chiudere il main set. È durato troppo poco ed un pubblico per nulla sazio li chiama a gran voce. I bis purtroppo sono solo due, entrambi tratti da Dogrel: “Roy's Tune”, canzone dall'impianto operaio che richiama esplicitamente le loro origini irlandesi, e “Liberty Belle”, un altro concentrato di energia primordiale che fa esplodere il Regio per l'ultima volta.
Per una volta non possiamo lamentarci che sia stato corto: l’intensità e la vividezza di una prestazione quasi perfetta vanno molto oltre i sessanta minuti che i cinque sono rimasti sul palco.
Se anche questa nuova leva di giovani gruppi Post Punk dovesse esaurirsi, i Fontaines D.C. non spariranno di certo: questi cinque ragazzi hanno davvero tutte le carte in regola per entrare nell’Olimpo dei grandi e questa sera l'hanno dimostrato anche al pubblico italiano. Adesso speriamo solo di poter vedere altri concerti del genere, nelle settimane e nei mesi a venire.