Andrea Laszlo De Simone è una figura atipica all’interno del panorama musicale italiano ma allo stesso tempo ne rappresenta un esempio virtuoso, nel senso che se tutti fossero come lui il mondo sarebbe un posto migliore. “Uomo donna”, uscito per 42Records nel 2017, lo ha rivelato generalmente al pubblico ma cinque anni prima c’era già stato il disco autoprodotto “Ecce Homo”, passato un po’ sotto silenzio ma che aveva già fatto intuire ai più attenti di che pasta fosse fatto il musicista torinese. Che in definitiva fa parte di quella ridotta categoria di artisti che pongono la ricerca del bello ed il perseguimento della propria visione al di sopra di tutto il resto, calcoli di mercato compresi. Lo ha dimostrato la storia di questo disco, che non sarebbe neppure dovuto uscire e che grazie alla spinta della label di Emiliano Colasanti, rimasto folgorato da queste canzoni, ha potuto essere offerto a tutti. Una proposta ostica, a partire dalla durata (77 minuti nell’epoca odierna appaiono un’operazione quantomeno azzardata) ma anche per l’approccio alle canzoni, decisamente lontano dai canoni che il famigerato “Indie italiano” ha sdoganato negli ultimi anni.
A dimostrazione però che quando c’è una verità dietro, gli strumenti espressivi valgono fino a un certo punto, “Uomo donna” ha fatto il botto, non toccando ovviamente i numeri di realtà spiccatamente mainstream ma divenendo senza dubbio un lavoro di culto, permettendo al suo autore di imporsi come esponente autorevole di un certo tipo di cantautorato sperimentale e dilatato, sulla scia di Iosonouncane, per far un nome significativo di cui certamente condivide l’attitudine.
“Immensità”, che è assieme Ep e colonna sonora di un mediometraggio, ne ha ulteriormente messo in risalto le capacità, evidenziando forse il lato più melodico e orchestrale della sua scrittura, processo per certi versi naturale, essendosi messa al servizio delle immagini.
L’occasione di Torino è privilegiata. In un momento storico che sta mettendo duramente alla prova l’attività concertistica così come l’abbiamo sempre conosciuta (ad oggi non è affatto certo che si possa riprendere tutto come prima), mettere in piedi uno spettacolo con tutti i crismi, con nove elementi sul palco e potenza piena di amplificazione, è un qualcosa che non avremmo mai potuto immaginare fino a pochi mesi fa. Merito di TOdays, che sappiamo tutti che realtà sia in Italia, e di DNA Concerti, tra le migliori agenzie di booking del nostro paese, da sempre partner di quello che è uno dei più importanti festival nostrani e che, quest’anno, lo sappiamo tutti, non si è potuto tenere.
Piacevole la cornice, nel cortile dell’Ostello Combo, che ha offerto una comoda platea di sedie (ovviamente con le dovute regole sul distanziamento) e un palco grande, degno degli avvenimenti importanti.
Sul palco, dicevamo, sono in nove. C’è la sua band di sempre: Demir Nefat alla chitarra, Daniele C al basso, Filippo Cornaglia (che è anche collaboratore storico di Niccolò Fabi) alla batteria, Zevi Bordovach e Anthony Sasso alle tastiere e all’elettronica, ma è affiancata anche da una sezione di fiati e archi, composta da Giulia Pecora al violino, Clarissa Marino al violoncello e Stefano Piri Colosimo alla tromba e al flicorno.
La prima parte è dedicata a “Immensità”, eseguito per intero, con i brani inseriti all’interno di una lunga suite da 40 minuti (quasi il doppio rispetto alla versione in studio), dove gli elementi orchestrali hanno un ruolo preponderante, sia nel preparare la scena con vari interludi che introducono e collegano tra loro le diverse tracce, sia nell’enfatizzare le bellissime melodie delle canzoni. Da sottolineare anche la vocalità espressa dalla band, con in particolare Demir e Daniele dietro ai microfoni, ad offrire riuscite armonie che sostengono la voce principale e donare ad alcune composizioni una luminosa coralità (è il caso ad esempio di “Mistero”, che più ha beneficiato di questo trattamento). Per il resto, le canzoni le conosciamo e non serve dire che sono state rese nella versione migliore possibile, dalla title track al crescendo spettacolare di “Conchiglie”, passando per “La nostra fine”, un brano che, ne sono assolutamente certo, avrebbe entusiasmato lo stesso Lucio Battisti, se fosse stato ancora qui per ascoltarla.
Terminata la prima parte, Andrea prende la parola (lo farà poi solo un’altra volta, degno esempio di un musicista che sul palco comunica esclusivamente attraverso le sue canzoni): “Questo era “Immensità”. Mi rendo conto che è un po’ corto quindi, se siete d’accordo, vi suoneremmo un po’ di vecchie canzoni”. Inutile dire che il consenso è stato unanime. E così, per altri 70 minuti, si susseguono alcuni dei momenti più significativi di “Uomo donna”, arricchiti ovviamente dal prezioso contributo dei tre elementi aggiunti.
Andrea e la band agiscono in piena libertà, facendo quello che sono sempre stati abituati a fare: incantare il pubblico e divertire loro stessi con ciò che suonano. Non ci si ferma mai, le canzoni si susseguono quasi ininterrottamente, come all’interno di un’eterna Jam e persino le sigarette vengono confezionate e fumate in diretta, praticamente senza mai interrompere il flusso (lo stesso Andrea che canta con la sigaretta in bocca è ormai parte integrante della coreografia dei suoi show).
Il gruppo si lancia a briglia sciolta, lavorando sempre su pochi accordi e melodie semplici, che vengono arricchiti aggiungendo strati su strati e dilatati fino allo sfinimento, crescendo gradualmente d’intensità. Il risultato è un cantautorato fortemente debitore ai nomi storici (Battisti di sicuro ma anche echi di De André e tutto l’universo dei nostri anni ’60), che incontra un approccio strumentale tipico della psichedelia e dell’Alternative Rock più sperimentale (chi ha detto Verdena?), il tutto con lo spirito delle grandi Jam Band degli anni ’70.
Indicare un brano piuttosto che l’altro sarebbe riduttivo, basti dire che i cavalli di battaglia, da “Sogno l’amore” a “Vieni a salvarmi”, da “Solo un uomo” (quella in assoluto dove l’elettronica diviene più preponderante) a “Eterno riposo”, da “Questo non è amore” a “La guerra dei baci” (che tra orchestra e cori hanno assunto la forma gioiosa tipica delle canzoni popolari), ci sono stati tutti, a certificare il valore assoluto di un disco che non ho nessun timore a definire classico, anche se sono passati solo tre anni dall’uscita.
Nel finale arriva anche “Che cosa”, unico episodio in cui i toni si smorzano e Andrea rimane quasi unico protagonista, con la sua voce e pochi tratti di accompagnamento, in un’atmosfera languida e quasi minimale; e poi non poteva mancare “Fiore mio”, tirata e coinvolgente come sempre, il punto attorno a cui confluiscono tutte le energie raccolte fin da inizio concerto e ci si lascia andare in una festa liberante, ideale zenit dell’esibizione.
In effetti pareva impossibile che si potesse andare oltre ma la serata è speciale, Andrea è a casa sua, il pubblico è entusiasta e allora è giusto continuare. Spazio dunque a due “bis” (per modo di dire, visto che la band non lascia mai il palco) tratti da “Ecce Homo”: “Perdutamente” e “Felice”, che col trattamento che viene loro riservato non hanno nessun timore reverenziale ad accostarsi al repertorio più recente, mostrando che già quando sperimentava a casa sua, con pochi e rudimentali mezzi, il talento era già pienamente dalla sua parte.
Un concerto strepitoso, quasi due ore di bellezza assoluta, un autentico regalo in questo periodo di incertezze e timori. Andrea Laszlo De Simone è ormai uno dei più grandi musicisti italiani oggi in circolazione. E se pensiamo che ha iniziato per caso, che ha raggiunto la visibilità pubblica più su insistenza di altri che per convinzione sua, verrebbe davvero da ribadire che oggi più che mai abbiamo bisogno di artisti così, dediti esclusivamente alla propria arte, poco interessati a quel che accade attorno a loro.