I Murder Capital sono giovanissimi ma sanno già quel che fanno, con un misto di maturità e spregiudicatezza che farebbe invidia ad una qualunque band di veterani. Sulla loro grandezza e sulla loro sopravvivenza nel tempo, non è il caso di esprimersi ancora: troppo diverso il mercato musicale di questi secondi anni Zero, troppo determinante la presenza dei Social, che impone dinamiche ancora difficili da leggere e ci impedisce di fare quelle previsioni che forse, almeno fino allo scorso decennio sarebbero state più semplici da azzardare.
Detto questo, la grandezza di un debutto come “When I Have Fears” è ormai sotto gli occhi di tutti (personalmente ne avevo scritto quest’estate, subito dopo l’uscita) e nonostante la componente derivativa della proposta sia innegabile, questi irlandesi possiedono una marcia in più, un valore aggiunto che non è facilmente definibile ma che sta lì, rendendoli possessori di una statura che è propria di coloro che sono nati per restare.
È per questo che sono andato a Monaco, a conti fatti la tappa più vicina di un tour che per il momento non ne vuole sapere di toccare il nostro paese. Purtroppo non ci saranno nemmeno al prossimo Primavera Sound, luogo che frequento abitualmente da qualche anno e così non mi rimaneva altro che questa breve trasferta, per poterne saggiare le capacità.
Lo Strom è un piccolo locale non molto distante dal centro storico della capitale bavarese e da quanto ho capito è stato ricavato da una vecchia chiesa sconsacrata; l’interno è piccolo ma decisamente accogliente, il palco piuttosto largo anche se difetta in altezza, un bar funzionale e ben organizzato. Organizzazione efficientemente tedesca all’ingresso, con fila ordinata e nessuno che si presenta anche un solo minuto prima dell’orario previsto dall’apertura (che avviene, manco a dirlo, con puntualità irritante), orari di inizio e fine set rispettati al secondo. E complice anche la breve durata dello show degli headliner, alle 22.10 spaccate eravamo fuori. A Milano a quell’ora normalmente la gente deve ancora arrivare. Sarebbe il caso di cambiare certe dinamiche, ormai credo sia inutile dirlo.
In apertura c’è Junior Brother, un amico della band che li sta accompagnando in tour. Suona sei canzoni da solo, seduto con la sua chitarra acustica e un tamburello sotto ai piedi per battere il tempo. A prima vista la sua proposta potrebbe non c’entrare nulla con quella della band principale ma ad ascoltarli bene, i suoi brani hanno un’andatura sghemba ed un feeling ubriaco, a metà tra divertimento e follia, che li rende piuttosto diversi dai soliti Folk Numbers che si ascoltano nei pub dell’Irlanda. Ad ogni modo, nonostante sia simpatico e comunicativo, non possiede a mio parere quel quid che mi porterà a voler approfondire la sua musica.
I Murder Capital arrivano venti minuti dopo, preceduti da un feedback assordante che il loro tecnico ha creato schiacciando i tasti delle pedaliere. Il rumore invade il locale e sfocia immediatamente nelle prime note di “Green & Blue”, che col suo andamento ipnotico ha il compito di scaldare i motori. Già la successiva “Don’t Cling To Life” però fa capire che i nostri, pur avendo diverse dinamiche rallentate all’interno dei loro pezzi, hanno intenzione di picchiare duro. Il risultato è un bel pogo nelle prime file, con uno scambio serrato e costante tra pubblico e band, coi cinque che cercavano spesso il contatto fisico coi fan e questi che ricambiavano volentieri, in un tripudio di abbracci e strette di mano.
La resa live di questa band è incredibile: sono giovani e si sa, quando si inizia non è così facile replicare sul palco le cose che si fanno in studio. Nel loro caso questa regola non vale: i Murder Capital sono a tutti gli effetti una macchina perfettamente rodata, che domina le assi del palcoscenico con una sicurezza al confine con la strafottenza e che possiede un’autorevolezza che certe band di veterani si possono solo sognare. Sono amici, lo dicono nelle interviste e lo ripetono anche questa sera ma si vede che non sono solo parole: il modo in cui gestiscono le dinamiche, il tiro dei vari pezzi, il modo in cui sanno sempre cosa fare, ad ogni momento, ne costituisce la prova lampante. Il batterista Diarmund Brennan fa il suo senza grandi sussulti ma è sempre potente e preciso, il bassista Gabriel Paschal Blake sembra uscito da un film di Scorsese e martella incessantemente digrignando i denti divertito all’indirizzo delle prime file. La coppia di chitarristi, Damien Tuit e Cathal Roper si divide i compiti piuttosto equamente: le ritmiche il primo, i fraseggi e gli effetti vari il secondo, che se ne sta spesso defilato, apparentemente quello più serioso e concentrato sul suo compito. E poi c’è James McGovern: è francamente difficile trovare le parole per descrivere cosa sia questo ragazzo sul palco. Non fa nulla di particolare ma è il portamento, il magnetismo che emana dalla sua persona, il modo in cui gestisce le pause, i gesti, il modo con cui canta, urla o declama, ora con rabbia, ora con solennità studiata, il modo in cui interagisce coi presenti, senza mai sorridere, sempre con sguardo severo e atteggiamento impassibile. C’è molta teatralità in tutto questo, si capisce che si è preparato per poter condurre lo show in questa maniera; allo stesso tempo però, il suo è un talento nato ed è evidente che abbia tutte le carte in regola per diventare un frontman gigantesco.
Per il resto, i cinque eseguono i brani a meraviglia, caricandoli di un’urgenza e di una intensità decisamente superiore alle versioni in studio. Si potrebbe addirittura dire che è proprio ascoltandoli dal vivo, che si capisce davvero perché quelle dei Murder Capital siano grandi canzoni.
Da brividi, in particolare, la seconda parte di “Slow Dance”, con quel suo crescendo tirato fino allo spasimo, in un’esplosione di distorsione e chitarra solista che è stata forse la cosa più bella del concerto. Ma anche “On Twisted Ground”, eseguita a luci quasi spente, sussurrata, lenta e scurissima, con un McGovern incredibile nella sua performance vocale. Un brano da pelle d’oca, che sul disco viene un po’ schiacciato da cose di maggiore impatto e che invece sul palco trova la sua autentica dimensione.
E ovviamente non possono mancare gli episodi più ruvidi, i singoli più immediati e di facile presa, come “For Everything” e soprattutto “Less is More” che già alcuni dei presenti, visibilmente alticci, cantavano prima dell’inizio. È qui che il pogo si scatena selvaggio e che, in un impeto di esaltazione, McGovern vi si butta dentro, per il grande entusiasmo dei presenti che, dal canto loro, non fanno nulla per proteggerne l’incolumità ma anzi, lo coinvolgono pesantemente nelle danze.
Il finale è affidato a “Feeling Fades”, col cantante che, risalito, fa sedere tutta la sala fino al momento in cui il pezzo si velocizza, con l’entrata di tutti gli strumenti. Poi da qui, un crescendo selvaggio, in pieno stile Post Punk, tutto giocato sulla ripetizione ossessiva, col frontman che, ancora una volta in preda all’adrenalina, si getta senza preavviso in platea, esibendosi in un crowd surfing spettacolare (che è riuscito per miracolo, perché il gesto è stato talmente istintivo che in molti sono stati colti di sorpresa).
Finisce così, in un bagno di sudore, con la gente che li acclama sempre più forte e sembra quasi voler invadere il palco per poterli abbracciare tutti. Loro ringraziano, ricambiano per quello che possono e se ne vanno. Così, senza nessun bis. 50 minuti di concerto, nove canzoni eseguite (è mancata solo la pianistica “How the Streets Adore Me Now”) ma nessun senso di insoddisfazione, nessuna lamentela da “avrebbero potuto anche suonare di più”. È stato un concerto perfetto, non vedo in che altro modo potrei descriverlo.
Speriamo di vederli presto anche dalle nostre parti perché sarebbe veramente insensato che l’Italia si perdesse un gruppo così. Cosa succederà nel loro futuro, non è dato saperlo. Al momento però i Murder Capital sono una delle band migliori che esista in circolazione.