Due novità in casa Soviet Soviet, nell'ultimo anno e mezzo: dapprima il cambio di line up, con lo storico chitarrista Alessandro Costantini sostituito da Matteo Tegu. Poi la pubblicazione, ad agosto, di “Ghost”, una cassetta di tre brani (uscita anche in formato digitale) risalenti alle session di “Endless” ma che la loro etichetta americana aveva deciso di non includere nella tracklist definitiva.
Reduci da un trionfale mini tour in Sud America, lasciatisi per sempre alle spalle la brutta avventura del 2017, quando fu loro negato l'ingresso negli Stati Uniti a causa di un disguido sulla tipologia di visto presentata, il trio pesarese torna ora in Italia per due date, a Torino e Milano.
I Soviet Soviet rappresentano pressoché un unicum nel panorama musicale nostrano. In un contesto dove le band italiane non escono quasi mai dai propri confini o, se lo fanno (come ultimamente sta in effetti avvenendo) è più per una sorta di sfida personale, per sondare il terreno, piuttosto che perché si è davvero desiderati da quelle parti, loro hanno praticamente sempre più suonato all'estero che in patria.
“Mi sto rendendo conto che è bello suonare nel proprio paese” ha detto il cantante e bassista Andrea Giometti più o meno a metà del concerto di sabato sera. E questo, nonostante fossero lontani dalle Marche, senza troppe facce amiche a salutarli.
Detto questo, se ci fosse qualcuno che si stesse chiedendo per quale motivo i Soviet Soviet piacciono così tanto, non è che si possa dare una risposta oggettiva. Indubbiamente, al di là dell’impegno, del rigore con cui hanno sempre lavorato, al di là di essere finiti (caso unico nella nostra storia musicale) in un libro di Simon Reynolds, l’unico fattore che può davvero aiutare a rispondere è il genere che hanno scelto di proporre, mai davvero passato di moda e molto amato, soprattutto in territorio americano. Questo, senza ovviamente trascurare l'altissima qualità della loro proposta.
Non si sono mai evoluti più di tanto, non hanno mai cambiato le coordinate del proprio sound (anche se da “Fate” in avanti sono senza dubbio divenuti più fruibili, inserendo una dose maggiore di melodia nelle canzoni e avendo smussato le asperità dell'esordio “Summer, Jesus”) ma hanno sviluppato una personalità fortissima, fatta senza dubbio di un utilizzo spregiudicato del modello Post Punk di scuola Joy Division, ma declinato nella modernità al punto tale da risultare credibile.
Derivativi ma non artefatti, i Soviet Soviet sono una band di primissimo livello e l’ultimo “Endless”, che ormai ha già tre anni, ne è forse la migliore dimostrazione.
L'affluenza questa sera è quella delle migliori occasioni, la coda per entrare si snoda fin sulla strada e i biglietti finiscono quando fuori in attesa c’è ancora un bel po' di gente. Ordinaria amministrazione, visto che si tratta di una delle poche occasioni per vederli in azione dalle nostre parti, ma è anche un bell'attestato di riconoscimento.
Alle 23, con l’inizio posticipato per dare a tutti la possibilità di prendere posto, i tre salgono sul palco. Luci viola molto basse, atmosfera lugubre, la lenta e funerea “Ghost” eseguita nell'immobilità più totale. Si tratta di un brano atipico nel repertorio di un gruppo che ha sempre fatto della velocità e delle ritmiche incalzanti il fulcro della propria scrittura. Ragion per cui un inizio così rende ancora più efficaci ed esplosive le successive “Endless Beauty”, “Remember Now” e “Fairy Tale”, un trittico dei migliori brani dell’ultimo disco.
La setlit, piuttosto breve anche a causa del ritardo accumulato, che ha costretto al taglio di almeno due brani nel finale, è ben bilanciata tra gli episodi di “Endless” e quelli del precedente “Fate” tra cui spiccano “Introspective Trip” e, ovviamente, “Gone Fast” ed “Ecstasy”, divenute ormai dei classici del loro repertorio.
Esecuzioni sempre splendide, con resa superlativa: dal vivo l’insieme è meno glaciale, chirurgico e suona molto più grezzo e selvaggio. Matteo Tegu appare perfettamente inserito nel quadro generale, i suoi fraseggi sono perfetti e si intersecano benissimo con le linee di basso di Andrea, che sono il vero cuore pulsante del sound della band. Il drumming di Alessandro Ferri è dietro a spingere tutto e così il quadro è completo: impatto devastante, sottolineato ulteriormente dal muoversi indiavolato di Andrea, che salta spesso su e giù per il palco come posseduto (con qualche rischio nel momento in cui il cavo del basso si impigliava da qualche parte ma per fortuna non è successo nulla) e che, tra una pausa e l'altra, sembra avere voglia di dire qualcosa ma di essere troppo emozionato per farlo.
Nel finale arrivano altri pezzi da novanta: bellissima “Rainbow”, bellissima “Blend”, bellissima “Pantomime”, che chiude il tutto, nonostante le ripetute richieste di bis da parte dei presenti: i nostri chiedono se hanno ancora tempo a disposizione, viene loro risposto di no e si finisce così.
Concerto di altissimo livello, sperando che non passi troppo tempo prima di averli nuovamente tra di noi.
Le foto sono per gentile concessione dell'autrice Silvia Violante Rouge