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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
17/02/2020
Editors
Live Report, 12 febbraio 2020 @ Alcatraz, Milano
È evidente che ormai si debba mutare la prospettiva con cui ci accostiamo al rock e ai suoi derivati. Ha a che fare con la dimensione temporale in cui siamo tutti immersi, è inutile girarci intorno.

Gli Editors sono in giro da 15 anni. Tanto tempo è passato infatti dall’uscita del loro esordio “The Back Room”. Oggi sono in giro a promuovere un best of con tanto di inediti, esattamente come fanno le band con una lunga e importante storia alle spalle. Ma dopotutto, 15 anni sono un periodo di tempo tale da giustificare una pausa di riflessione che permetta di riannodare i fili, anche se di dischi in studio ne hanno fatti solamente sei. Bene, ma se è così, come mai continuiamo istintivamente a considerarli un gruppo da “seconda ondata”? Come mai ci ostiniamo a riferirci a loro come a “una band degli ultimi tempi”? Beh, perché è così, se ci si pensa bene. Siamo nel cosiddetto nuovo millennio, non importa che siano già passati vent’anni dal suo inizio, nella nostra prospettiva sarà sempre “nuovo”, anche tra altri venti, probabilmente. E poi ci sono i “grandi del rock”, quelli che ancora insistiamo a proporre nei nostri calcoli, quelli che ancora vanno in tour anche se hanno annunciato per la milionesima volta che “questo è l’ultimo e poi smettiamo!”. Capite, finché sarà così, che meraviglia c’è che gli Editors vengano considerati ancora un gruppo della nuova leva?

Ma poi entri all’Alcatraz, per la prima delle due date che Tom Smith e compagni terranno nel capoluogo lombardo, e vedi che il pubblico ha un’età media decisamente alta, tanto che tu potresti pure essere annoverato tra i più giovani. E quindi? A quale dimensione appartengono oggi gli Editors? Al passato, al presente o al futuro? Difficile dirlo. Anche perché le reazioni dei presenti (che erano tanti, il locale era quasi sold out) non sono state così semplici da leggere. Diresti che, attempati com’erano, fossero tutti lì per rinverdire i fasti dei primi due album (dopotutto l’hanno detto anche loro verso la fine, che “Oggi ci sentiamo nostalgici”) ma poi vedi che tra i brani più partecipati ci sono “A ton of Love”, “Magazine”, “Upside Down”, “Frankestein”, “Violence”, “Ocean of Night” e due domande giustamente te le fai. E se fosse tutta gente che ha scoperto il gruppo di Birmingham nel momento in cui ha tentato di fare gli stessi soldi degli U2? Domande senza risposta e forse è meglio chiuderla qui.

Comunque sia, Tom Smith, Russel Leetch, Edward Lay, Justin Lockey ed Eliott Williams sono qui e sono intenzionati a dare il meglio ai propri fan. Lo capisci dallo sbattimento che dimostrano sul palco, dall’entusiasmo che ci mettono (Russel è in assoluto quello più contento di tutti, è un continuo sorridere e salutare all’indirizzo delle prime file), anche all’interno di uno spettacolo che, pur senza affidare nulla agli orpelli scenografici, dà comunque l’impressione di essere ben costruito e strutturato, con pochissimo spazio all’improvvisazione e alla spontaneità.

Per uno come il sottoscritto, che considera molto poco tutto ciò che hanno fatto da “The Weight of your Love” in avanti, l’inizio è manna dal cielo: il quartetto iniziale con “An End Has a Start”, “Bullets”, “Bones” ed “Escape The Nest” (almeno tre di queste non comparivano da tempo nelle scalette dei nostri) è oggettivamente da capogiro e ci fa provare un filo di rimpianto per un livello di scrittura che, a meno di miracoli, non verrà mai più raggiunto.

Allo stesso tempo è paradossale perché nel momento in cui i cinque si lanciano nel repertorio recente, con “Sugar”, “Magazine” e altri titoli già citati, succede una cosa strana: sono pezzi inferiori, almeno per i gusti di chi scrive, ma godono di una resa decisamente superiore. C’è il tiro giusto, c’è equilibrio e trattandosi di composizioni dove il ritmo è più basso e dove c’è un lavoro di Synth che è preponderante rispetto a quello di chitarra, è evidente che oggi si trovano maggiormente a loro agio con queste coordinate sonore. Questo non vuol dire che le esecuzioni dei vecchi pezzi non siano state all’altezza (tutt’altro) ma che si è avvertito chiaramente che fanno ormai parte della loro storia passata, qualcosa che si può tirare fuori volentieri nelle occasioni di festa ma che non si renderebbe mai parte della propria quotidianità. E lo stesso Tom Smith, che di solito a livello vocale è ineccepibile, ha mostrato qualche segno di cedimento, soprattutto nelle battute iniziali.

Normale, in fin dei conti. Si cambia e gli Editors oggi sono un gruppo diversissimo da quello che erano tra il 2005 e il 2007. In questo tour però, occasione preziosa per rifiatare e guardarsi indietro, tentativo di osservare il passato per, eventualmente, trovare nuove indicazioni per muoversi nel presente, la setlist è pesantemente incentrata su “The Back Room” e “And End Has a Start”; vale a dire, per chi scrive ma non solo, l’apice della loro produzione (ci metto dentro anche il successivo “In This Light and On This Evening”, seppure un pelino sotto). Dei 24 brani di una scaletta che, a memoria, non era mai stata così corposa, 13 provengono dai lavori sopracitati. Se aggiungiamo l’onnipresente “Papillon” e il ripescaggio inatteso di “Walk The Fleet Road”, dobbiamo dire che meno della metà del concerto è stato dedicato al periodo post Urbanowicz. E quindi, accanto ai classici quasi sempre suonati come “Munich”, “Blood”, “The Racing Rats” e “Smokers Outside The Hospital Door” (tutte suonate alla fine, quest’ultima ha chiuso il concerto, in una versione molto più lenta dell’originale e francamente non entusiasmante) sono comparse anche cose che non si sentivano da tempo: “Spiders”, “Distance”, “Fingers in The Factories” e persino un’outtake come “You Are Fading”, che Tom si è sentito in dovere di introdurre, dicendo: “Se anche non ve la ricordate, non fa niente!”. Menzione speciale per una toccante “The Weight of The World”, suonata dal cantante in completa solitudine, chitarra e voce, atmosfera minimale ed esecuzione quasi sussurrata.

Un bel concerto, in fin dei conti. Loro hanno suonato bene, noi ci siamo divertiti e abbiamo ascoltato un sacco di belle canzoni. Abbastanza per andar via contenti, insomma. Ecco, credo che di più, in questo momento non si possa proprio chiedere. Certo, magari arriverà il prossimo disco e sarà di una bellezza tale da farci gridare al miracolo. Potrebbe anche succedere, no? In fin dei conti, cosa ci costa sperare?

Fotografie di Fabio Campetti


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