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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
10/05/2019
Joshua Redman Trio
LIVE REPORT - TORINO JAZZ FESTIVAL 30/04
Come sale sul palco, il musicista americano impugna con forza la sua arma da guerra e fa irruzione nelle nostre vite. Un intro dal flow spiazzante, le sue gambe scalpitano, sta per scoppiare: ha tanto da dire ed è urgente.

Con una nuova e consapevole direzione (quella dei musicisti Diego Borotti e Giorgio Li Calzi) il Torino Jazz Festival ha potuto offrire, in questi ultimi due anni, un programma vasto e ricco, costellato da grandi nomi.

È il caso del concerto di questa sera: in occasione della Giornata Internazionale del Jazz, le Officine Grandi Riparazioni ospitano un gigante della scena jazz contemporanea, Joshua Redman.

L’attesa è febbricitante ma il concerto, suddiviso in due set, si apre con qualcosa di molto lontano dalla musica del sassofonista americano. Il norvegese Jon Balke, accompagnato da alcuni archi del Conservatorio di Torino, si esibisce con un ensemble di origine per lo più maghrebina, Siwan. La loro proposta musicale si radica nella tradizione medievale andalusa che, come spiega lo stesso Balke, era costituita da un mix di culture, lingue e tradizioni a metà fra Oriente e Occidente.

I pezzi che hanno sostenuto, con fatica, un’ora e mezza di concerto, sono tratti dall’omonimo album “Siwan” (ECM Records, 2009). Il primo a essere suonato è il più conosciuto, Nahnou Houm, e subito ci immerge in atmosfere dal gusto antico e lontano, come suggerisce la limpida e vibrante voce di Mona Boutchebak. Tuttavia, l’approccio di Balke è un approccio moderno, massimamente esemplificato, e forse debilitato, nel suo uso delle tastiere: parrebbero echeggiare i clavicembali monteverdiani dell’Orfeo ma, nel momento in cui, a metà concerto, il pianista si lascia andare in un solo, l’improvvisazione è quella di altri tempi, i nostri, e quasi stona con il resto. A lungo andare, le misteriose suggestioni iraniche scemano nel loro troppo ripetersi.

Per fortuna, Joshua Redman è venuto a salvarci!

Come sale sul palco, il musicista americano impugna con forza la sua arma da guerra e fa irruzione nelle nostre vite.

Un intro dal flow spiazzante, le sue gambe scalpitano, sta per scoppiare: ha tanto da dire ed è urgente.

Mack the Knife non poteva che sopperire a questa esigenza: composta da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht, è poi diventata un celebre standard di cui è esemplare la versione che Sonny Rollins ne fece in “Saxophone Colossus” con il titolo Moritat.

Un pezzo incalzante ed energico che, con l’ingresso di basso e batteria, seduce completamente l’ascoltatore. Il tema principale è appena accennato e torna spezzettato qua e là.

Redman non ha fretta di arrivare alla fine, è qui per raccontarci una storia. Ogni pezzo combina con equilibrio la rigidità della struttura e l’improvvisazione più pura è sincera: è, appunto, l’organico narrativo di Sonny Rollins, influenza notevole nella costruzione delle improvvisazioni e nella scelta di una formazione così particolare.

A pochi mesi dalla sua ultima registrazione in quartetto, “Come What May” (Nonesuch Records), Redman rinuncia al pianoforte di Aaron Goldberg, accompagnandosi solo con Reuben Rogers al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria. Vi è una perfetta coesione fra musicisti, fra amici che si ascoltano reciprocamente con stima e rispetto, ma è sempre il sassofono ad uscirne risaltato e protagonista.

A seguire, una composizione originale, Zarafah, dall’album “Back East”: ci addentriamo così in un’altra Arabia, quella delle grandi metropoli, del caos cittadino. Il fiato di Redman è un flusso continuo, ininterrotto: quando pensiamo che stia per approdare in un porto sicuro lui ci frega e prende una via laterale, che non avevamo visto. Non tralascia nulla nel racconto, esplora tutti i territori possibili ma tenendo ben presente la via del ritorno. Sa dove vuole arrivare.

Intanto l’adrenalina sale ed ecco che Redman, dopo aver ringraziato il pubblico e riso del traffico torinese, spezza con un pezzo più romantico e indulgente: Second Date, un’altra produzione originale. Dopo code su code – sembra di ascoltare Pat Metheny – la fine arriva dolcemente, cantabile. Così come l’incipit dello standard successivo, Never Let Me Go, già registrato nei “Trios Live” (2014). Siamo nel cuore del concerto e sempre più chiara si delinea la figura di una rockstar del sassofono.

Redman, dopotutto, non nasce propriamente come musicista jazz: i suoi esordi testimoniavano un interesse maggiore verso la musica pop e rock (ha suonato ad esempio con i Rolling Stones) e con il passare del tempo questo altro universo ha trovato luogo nella sua discografia con riarrangiamenti nuovi, un po’ come ha fatto tante volte Brad Mehldau. L’ultimo pezzo The Ocean è una rivisitazione della celebre canzone dei Led Zeppellin. Il sassofono sostituisce il protagonismo della chitarra di una band anni ’70 e non mancano un basso e una batteria groovy.

A questo punto Redman abbandona il palco per poi tornare, a grande richiesta, per un breve bis che, tuttavia, delude un po’ le aspettative.

Anche Deewy Redman, centrale nella formazione musicale del figlio, ha spaziato molto fra generi, accompagnando Keith Jarretth piuttosto che Ornette Coleman, ma senza mai perdere il calore del suono, l’umanità che porta con sé. Redman, con umiltà, ha detto di non aver mai raggiunto questa qualità che lo separa abissalmente dai grandi. Nonostante il concerto alle OGR non abbia toccato gli apici di altri suoi live, sono convinta che Joshua Redman sia già sulla buona strada. Non ci resta che aspettare il suo prossimo concerto.


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