Amy McDonald la seguo sin dagli esordi, da quel “This is the Life” che la proiettò in vetta alle classifiche della Gran Bretagna, capitolo primo di una carriera che, pur senza picchi eclatanti di eccellenza, è stata ed è senza dubbio ricca di soddisfazioni. È sempre stata un mio personale guilty pleasure, io che queste sonorità le apprezzo ma non ne ho mai fatto questione di vita o di morte. E non ero mai riuscito a vederla dal vivo, anche perché, se la memoria non mi inganna, in Italia a suonare non ci era praticamente mai venuta. Lei stessa ricorda di essere venuta una sola volta a Milano, proprio ai tempi del primo disco, ma che questo era in pratica il suo primo vero show da headliner nel capoluogo lombardo (“Ho messo un vestito buono per l’occasione, perché so che qui amate vestire eleganti – ha scherzato durante la prima volta che ha preso la parola, subito dopo il secondo pezzo – normalmente vado sul palco in jeans e maglietta”).
L’occasione è l’uscita di “Woman of the World”, raccolta che celebra appunto i suoi primi dodici anni di cammino (strana ricorrenza, in un periodo in cui impazzano gli anniversari per decennali, ventennali e quant’altro). Il Teatro Dal Verme è quasi pieno: rimane qualche sedia vuota in platea ma è un risultato assolutamente positivo, se si considera che l’artista scozzese, popolarissima in Europa, dalle nostre parti non ha mai mietuto chissà quali consensi.
Quando sale sul palco con la band e attacca proprio con “Woman of the World”, il brano inedito che apre anche la raccolta, capisco che la serata non sarà esattamente come me l’aspettavo: in scena c’è un tastierista, che si alternerà alla chitarra acustica e al mandolino, un’altra chitarra, un contrabbassista/bassista, un violino ed un violoncello. Per me che che ho sempre apprezzato la sua energia rock, a ravvivare una proposta ispirata spesso e volentieri al Country Folk di chiara radice americana, vederla in questa veste intima e cameristica, è stata una sorpresa notevole. In effetti avrei dovuto aspettarmelo, visto che per questo tour ha deciso di suonare nei teatri, ma sinceramente non ci avevo proprio pensato.
Poco male, perché la band è brava, le canzoni ci sono e anche in questa versione conservano tutta l’energia degli originali. Non a caso il pubblico, variegato per età e, a quanto pare, non particolarmente addentro al repertorio, risponde alla grande e sono moltissimi i momenti in cui i brani, soprattutto quelli costruiti su Up Tempo e chitarra dritta, vengono accompagnati da energici battimani.
Amy è contenta, affabile e simpatica. Tra un pezzo e l’altro si racconta molto, cosa normale se si pensa che dopotutto è un tour celebrativo. Si diverte a rievocare ricordi e a snocciolare aneddoti, racconta di aver scritto “Pride” ispirata dall’inno nazionale scozzese prima delle partite di calcio (“Partite che perdiamo sempre, d’altronde se tifi Scozia è così, invidio voi italiani, dovete essere davvero orgogliosi della vostra squadra!” ha detto, evidentemente ignorando che negli ultimi anni, di motivi per gioire non ne abbiamo avuti molti), racconta di quando ha registrato il suo primo disco, decidendo di abbandonare l’università, e che questa, per tutta risposta, le ha comunicato che avrebbe congelato la sua iscrizione ancora per un anno (“Evidentemente non credevano molto nelle mie possibilità di diventare una rock star!”), ha parlato della genesi di “This is the Life”, scritta dopo un party scatenato, quando aveva solo sedici anni, con un Hang Over mica da ridere ma con la voglia di celebrare lo stare insieme a cantare, bere e suonare con i propri amici. Ha poi scherzato sul suo accento, chiedendo a più riprese se davvero la stessero capendo (effettivamente la pronuncia di alcune parole era al limite dell’assurdo), ha infilato una parentesi politica, chiedendo scusa a nome degli inglesi, per tutta la vicenda della Brexit, tenendoci a sottolineare che la maggior parte degli scozzesi ha votato per rimanere nell’Unione Europea. Ma l’intervento migliore è stato quando, dopo appena una manciata di canzoni, ha esclamato, calma ma anche un filino indispettita, che “Voi italiani siete davvero dipendenti dai vostri cellulari! Ho girato tutta l’Europa ma non ne ho mai visti accesi così tanti come qui! Capisco se dovete scattarmi delle foto o fare qualche filmato ma messaggiare mentre stiamo suonando non è il massimo, non credete? Cercate di godervi quello che sta succedendo adesso!”. Parole sagge, che in effetti vengono salutate da uno scroscio di applausi. Se più musicisti avessero il coraggio di fare questi richiami, anche in contesti meno intimi di questo, probabilmente la vivibilità dei concerti ne gioverebbe, anche se dubito che accadrà, soprattutto a breve.
Al di là di questo, è stato comunque un bel concerto. Amy è brava, canta bene, regge ottimamente il palco e il lotto di canzoni di che propone nel suo set, pur con qualche grave mancanza (“Slow It Down” e “4th of July”, per lo meno a mio parere, ci sarebbero state alla grande) è di ottimo livello. Per carità, non stiamo parlando di nulla di clamoroso, alla fine il genere è quello e dal punto di vista stilistico non ci sono variazioni, il suo songwriting è sempre stato particolarmente omogeneo.
Ciononostante, la spinta di brani come “Spark”, “Mr Rock and Roll”, “Leap of Faith”, “Automatic”, si incastra piacevolmente con cose più rallentate, dove sono gli archi soprattutto ad essere messi in evidenza. Da questo punto di vista, episodi come la completamente riarrangiata “Don’t Tell Me That It’s Over” o l’interpretazione particolarmente intensa di “Give It All Up”, sono tra le cose migliori ascoltate nel corso della serata.
La band è affiatata e i suoni del teatro sono al limite della perfezione. Sarà anche tutto molto scolastico, ma è assolutamente piacevole, una proposta semplice e per tutti i palati, come infatti l’enorme coinvolgimento del pubblico è lì a dimostrare.
L’unico difetto, se proprio dobbiamo trovarne uno, è che è stato fin troppo breve: se consideriamo la pausa per i bis e i diversi monologhi pronunciati, alla fine 17 canzoni per ottanta minuti scarsi totali, non ci sono sembrati granché. Nonostante l’energia degli ultimi momenti, con l’accoppiata “Life in a Beautiful Light” e “Poison Prince” a far alzare tutti dalle sedie, un po’ di amaro in bocca rimane lo stesso.
Mettiamola così: ci teniamo la fame per il prossimo disco e per il prossimo tour, sperando che passi ancora dalle nostre parti, magari in formazione elettrica. Magari anche con qualche cellulare in meno.