Credo che Mac Demarco sia l’artista che in assoluto più mi sono perso dal vivo negli ultimi anni. In Italia ci è venuto diverse volte ma per un motivo o per l’altro, io ero sempre da un’altra parte. Inoltre, da quando frequento il Primavera Sound, è nella line up un anno sì e uno no, ma ogni volta decido puntualmente di saltarlo in favore di altre cose che reputo più interessanti. E così, dopo averlo mancato nuovamente anche a sto giro (quest’anno poi è stato particolarmente assurdo, visto che ho preferito aspettare Courtney Barnett in prima fila) non potevo non essere presente al Circolo Magnolia, per la sua prima data milanese dopo cinque anni.
Non fraintendetemi, apprezzo il musicista canadese ma trovo che negli ultimi tempi si sia un po’ fermato, producendo dischi un po’ troppo uguali a loro stessi, come se volesse perpetuare a tutti i costi l’immagine che ci siamo fatti di lui. Che poi non lo fa certo apposta, se consideriamo la fatica che ci ha messo per convivere pacificamente con la propria fama, tutti i tentativi per continuare ad essere un ragazzo normale, nonostante tutto. Non è stato neppure un processo lineare: dalla casa sull’acqua a Far Rockaway, fuori New York, con l’invito ai fan a venirlo a trovare se ne avessero avuto voglia, alla frustrazione per questo isolamento, culminata nella decisione di trasferirsi a Los Angeles, proprio nel cuore di quel Music Biz che forse avrebbe voluto evitare.
In ogni caso non ha perso il proprio smalto, la propria insana spontaneità, che è la stessa per cui lo puoi vedere sul palco che si brucia i peli delle ascelle o si infila una bacchetta nel culo; oppure (anche questa è una storia vera) per cui lo puoi trovare a Barcellona a pogare come un pazzo alle tre di notte all’Apollo, mentre si stanno esibendo i suoi amici Fucked Up e lui avrebbe suonato la sera dopo.
È uno così, che non si prende mai troppo sul serio ma che allo stesso tempo ha un approccio serissimo a quello che fa. Negli ultimi anni c’è stata la morte del padre, con cui, da quel che ho capito, ha sempre avuto un rapporto problematico ma il legame con Keira, la sua ragazza, ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel ricentrarlo sulla realtà (nell’ultimo disco c’è “K”, una ballata molto dolce anche per i suoi standard, che è dedicata a lei).
Certo, probabilmente “Here Comes the Cowboy” (titolo autoironico, non certo un tributo al Country) non è il disco che ci saremmo aspettati da lui, per come appunto gioca con i luoghi comuni della sua musica e ce ne mostra il lato più scontato e ripetitivo. Un disco privo di sorprese, con dei bei pezzi ma nel complesso piuttosto stanco, pericoloso segnale per un artista la cui carriera è iniziata da poco ma che rischia già di adagiarsi in uno sconfortante già saputo.
Sono forse però solo paranoie da addetti ai lavori (o presunti tali): il pubblico se ne frega altamente. La scena che mi accoglie una volta arrivato sul posto è infatti quasi surreale: c’è una fila lunghissima che si snoda per diversi metri davanti all’ingresso, tanto che la prima cosa che penso è: “Ci dev’essere un evento in concomitanza all’Idroscalo o in qualche posto qui accanto”. Vedete come siamo messi? Impossibile che in Italia ci sia tutta questa gente per un nome di medio livello come Mac Demarco. E invece sono tutti qui per lui. Le sue quotazioni sono cresciute tantissimo e io evidentemente non me ne sono accorto. Bene così, dopotutto. Si sta parecchio stretti, la temperatura non è proprio l’ideale ma per una volta ad un concerto dalle nostre parti c’è l’affluenza che dovrebbe esserci.
E non è certo gente capitata lì per caso: quando lui e la sua band salgono sul palco sulle note di “On the Level” il boato è pazzesco e già con la successiva “Salad Days” il singalong è incredibile e si verificherà puntualmente ogni volta che verrà proposto un brano vecchio. Decisamente una cornice incredibile, al di là di ogni immaginazione.
Dal canto loro, i cinque musicisti sono in palla e apprezzano visibilmente la partecipazione del pubblico. Credo che nel tempo gli eccessi più demenziali siano scomparsi e questa sera la performance è piuttosto tranquilla, esattamente come lo era stata al Primavera Sound, da quel che mi avevano detto. Certo, non si può non notare come i nostri siano amici, si concepiscano come un vero e proprio gruppo, e come non rinuncino ad interpretare la parte dei simpatici cazzari. Sono tanti i siparietti tra una canzone e l’altra, dal racconto del pomeriggio passato ad un fantomatico parco acquatico (che sia quello di Concorezzo? Non sono stati molto precisi a riguardo), all’esilarante ricordo della prima volta che hanno suonato a Milano, con un intenso ricordo del “miglior sandwich che abbia mai mangiato, c’era una specie di hot dog aperto a metà e messo sulla griglia, qualcuno ha idea di come si chiami?” E allora il pubblico urla a gran voce: “Salamella!” e lui prova a ripeterlo, con scarsi risultati, dicendo poi, tra una risata e l’altra: “Vabbeh, proveremo a capirlo meglio dopo!”. Oppure quando, introducendo “Finally Alone”, forse anche lui stupito dalla partecipazione del pubblico sugli episodi più datati, mette le mani avanti dicendo: “Mi dispiace ma questo è un pezzo nuovo”. E il suo chitarrista, di rimando: “Non è vero che gli dispiace, è contentissimo!”. E lui: “Sì è vero, in effetti mi piace questa canzone!”.
Insomma, è una cosa così. Che poi non è che non suonino, anzi. Gli arrangiamenti, come da copione, sono molto semplici ma le esecuzioni sono davvero ben riuscite e nel complesso è un concerto di alto livello, anche se a tratti un po’ ripetitivo. La parte di sicuro più atipica, straniante in maniera demenziale, è il contrasto tra l’atteggiamento gigionesco di Mac e la delicatezza un po’ agrodolce delle sue canzoni. Lo si vede soprattutto in “My Old Man”, quando fa cantare al pubblico il ritornello urlando e muovendosi come se fosse un cantante Hardcore.
Per il resto, con una scaletta incentrata sui brani migliori del suo repertorio, si va abbastanza sul sicuro: “Another One”, “Freaking Out the Neighborhood”, “My Kind of Woman”, “Ode To Viceroy”, “Cooking Up Something Good”, “Chamber of Reflection” sono tutti ottimi esempi di un songwriting ispirato e piacevole, mandano talmente tanto in visibilio il pubblico da fargli cantare pure le parti strumentali tra una strofa e l’altra.
I brani del nuovo album sono inferiori, almeno per quanto mi riguarda, ma in questo contesto fanno la loro figura, specie il singolo “Nobody”, la romantica “All of Our Yesterdays” o la divertente “Choo Choo”, che diventa anche un’occasione privilegiata per una bella Jam, grazie alla quale capiamo che questi cinque saranno pure dei cazzari ma suonano che è una meraviglia.
Forse quella che mi è piaciuta di più è “Stil Beating”, dal precedente “This Old Dog”, un brano che a detta sua non fanno spesso ma che mi ha colpito per l’esecuzione intensa ma allo stesso tempo più delicata e meno carica rispetto alla versione in studio. Se dovessi scegliere un momento per fotografare la grandezza di Mac Demarco come performer, al di là dell’indole cazzara o della tendenza alla ripetitività che comunque ogni tanto viene fuori, sceglierei quella.
Nel finale sale sugli scudi la band, con una serie di cover rumorose e divertenti, tra cui una riuscita “Hollywood Babylon” dei Misfits, prima che Mac ritorni sul palco per una bella versione piano e voce di “Watching Him Fade Away”, dedicata al padre. Anche qui il pubblico canta e si finisce in un clima di serenità e comunione totale.