Anche se il locale era lontano dall’essere sold out, ad accogliere Amber Bain & Co. in quest’unica tappa italiana del loro tour (che li vedrà impegnati in giro per il mondo fino a maggio inoltrato) è stato comunque un pubblico numeroso, che, nonostante il freddo milanese, ha contribuito a scaldare a dovere l’atmosfera.
L’onore di aprire il concerto è toccato agli Aftersalsa. Freschi della pubblicazione del loro album d’esordio Concrete, il quartetto milanese ha offerto una prestazione davvero convincente. In bilico tra Dream Pop ed Elettronica, hanno regalato al pubblico una manciata di canzoni eteree, notturne, fatte di elettronica scarna, voce sussurrata e chitarra à la Angelo Badalamenti, tanto che, per un momento, è sembrato davvero di trovarsi al Bang Bang Bar di Twin Peaks.
E l’atmosfera lynchana – quelli che hanno presente le esibizioni che chiudevano le puntate di Twin Peaks – Il ritorno sanno di cosa si sta parlando – è rimasta anche durante l’esibizione dei The Japanese House. La band del Buckinghamshire – monicker dietro il quale si cela Amber Bain, qui affiancata da una formazione che comprende, oltre a lei alla chitarra, anche basso, tastiera e batteria – ha regalato agli spettatori un ottimo concerto, davvero convincente sotto tutti i punti di vista. Attivi dal 2015 e con diversi ep alle spalle, i The Japanese House dal vivo sono un combo compatto che dimostra di avere una certa familiarità con il palco, dal momento che, senza particolari stratagemmi, riesce a riprodurre senza troppa fatica il bel sound etereo (un mix di Dream Pop, Indie Rock e Folktronica) che permea i loro lavori in studio. Lungo le quindici canzoni che hanno composto la scaletta del concerto non c’è un attimo di cedimento, e anche se la velocità di crociera non è mai elevata e l’atmosfera prevale sul ritmo, lasciano il pubblico conquistato sia dalla musica sia dalla performance.
Durante il concerto, Amber ha modo di pescare da quasi tutto il repertorio della band (con l’ep Swing Agains the Tide particolarmente citato), trovando anche il modo di anticipare una manciata di canzoni che finiranno in Good at Falling, il primo vero full lenght della band, a lungo atteso e finalmente in uscita il 1° marzo per Dirty Hit. È chiaro che il sound dei The Japanese House a tratti ricordi quello dei The 1975 più intimi – non è un segreto che Matt Healy e George Daniel siano tra i collaboratore fissi di Amber –, ma ci sono anche dei particolari intrecci vocali che ricordano Imogene Heap (tra l’altro, riprodotti fedelmente dal vivo), alcuni tocchi dei primi Wolf Alice e una concezione della sezione ritmica che ha più di qualche debito con il Phil Collins solista.
La band dal vivo ci sa fare, non c’è dubbio, e sa farsi volere bene dal proprio pubblico, aiutata anche da un atteggiamento spontaneo e naturale, che azzera ogni distanza con gli spettatori.
Ad un certo punto, qualcuno delle prime file regala ad Amber una bandiera italiana con il logo della band al centro del tricolore. È un piccolo segno, è vero, ma è un chiaro segnale che la semina è iniziata ed è stata fatta bene. Magari non erano un esercito, ma i fan italiani che hanno assistito al concerto dei The Japanese House al Magnolia di sicuro se ne sono tornati a casa soddisfatti, curiosi di seguire le prossime mosse di Amber Bain & Co. E quella, al netto di tutto, è davvero l’unica cosa che conta.