Dai concerti improvvisati nei negozi di dischi o fuori dalle fabbriche, al suonare con chiunque e per chiunque, all’invitare ospiti ai suoi concerti, all’alternare la sua voce con quella di altri amici… tutto di lui e del suo modo di muoversi dice di uno per cui la musica nasce dalla strada e diviene occasione di compagnia, condivisione e perché no, aiuto nell’intravedere un significato nella vita.
C’è un momento, verso la fine, in cui sul palco sale Mark Geary, cantautore, dublinese, amico, che ha aperto per lui e che rimarrà sul palco fino alla fine. Viene suonata la sua “It Beats Me”, che ha un verso che fa: “Hail Mary, motherless grace, Hail Mary, marvelous grace”. “Maledetti questi irlandesi con la loro ossessione del cattolicesimo, che anche in una canzone d’amore come tante ci devono infilare riferimenti alla Madonna.” direbbe qualcuno. Eppure subito prima era stata eseguita “Her Mercy”, brano che più gospel di così non si potrebbe e come al solito, quando il crescendo nel finale esplode in un liberatorio solo di sax, si ha la netta impressione che il messaggio potrebbe essere questo: la musica può anche salvare ma perché questa salvezza sia completa occorre anche qualcos’altro, qualcosa che non è necessariamente dentro di noi ma che arriva da fuori, qualcosa che ci è dato, esattamente come lo sono i regali più belli.
E poi la dimensione comunitaria. Perché alla fine, dicevo, finisce sempre così. Si cantano le canzoni di altri, perché al musicista Folk, di eseguire le sue importa relativamente: canta quello che al momento esprime meglio quello che lui sente. Per cui è bello vedere come da “It Beats Me” si passi quasi in punta di piedi ad “Into the Mystic” e poi a “Drive All Night” (quasi improvvisata, si sarebbe detto, dai gli sguardi scambiati col resto della band) e poi ancora a “Bird on a Wire”, che forse più di altre ha espresso quel desiderio di significato che in un modo o nell’altro, consapevoli o meno, quelli sul palco e quelli giù hanno cercato per tutta la serata. E quindi non è un caso che si finisca assieme: l’energica versione di “Dream Baby Dream” scelta per chiudere il concerto finisce con una sorta di invasione di palco favorita dallo stesso Glen, dapprima col pubblico che abbandona le sedie e corre sotto (ma questo è tradizione, al Vittoriale), poi con qualcuno che viene addirittura tirato su, in un “rompete le righe” generale che alla fine vedrà il cantante letteralmente circondato e abbracciato dai fan. Tutto questo mentre la musica continua. Il classico dei Suicide è finito e nel frattempo è iniziata “Devil Town” di Daniel Johnston, eseguita come un pezzo tradizionale, strumenti al minimo, schioccare di dita, coro cantato sguaiatamente da chi la sa.
E finisce come (quasi) tutti i concerti di Glen Hansard: con band e tecnici in riga, rigorosamente senza amplificazione, a cantare “The Auld Triangle”. Una strofa a testa, come da tradizione, ognuno canta quello che sa, ognuno fa quel che può, poi tutti insieme si urla il ritornello.
Ed è appunto una grande festa, il concerto ce lo siamo già lasciati alle spalle ma ripeto, era difficile immaginare diversamente. Glen Hansard non è uno che fa le cose come le fanno tutti. Basta vedere la scaletta: completamente ignorato il precedente disco “Between Two Shores” (meglio così, visto che non l’ho mai trovato particolarmente ispirato), che era tra l’altro l’unico che non avesse portato in giro in Italia. “This Wild Willing”, il suo ultimo lavoro, quello che in teoria giustificherebbe questo ennesimo giro di concerti in Europa, ridotto al minimo sindacale. Quattro canzoni eseguite, tra l’altro anche molto bene, soprattutto “Don’t Settle”, con quel break centrale dove il flauto ha preso il controllo della situazione e ha trasformato una ballata malinconica e lievemente depressa in una spensierata giga irlandese. A sentirle dal vivo, le nuove canzoni (in scaletta sono comparse anche “Fool’s Game”, “I’ll Be You, Be Me” e “The Closing Door”) appaiono decisamente migliori che in versione originale, cosa che ha in parte accresciuto il rimpianto per non averne ascoltate di più. Ma si sa, lui è così. Quando suona dal vivo cerca soprattutto il coinvolgimento di tutti e questo ultimo disco, rispetto al suo solito modo di scrivere, è diverso, più riflessivo, più ostico (ne ho già abbondantemente parlato in sede di recensione, non voglio ripetermi).
Tra l’altro a questo giro, quello che colpisce è la band ridotta all’osso, priva della sezione fiati e degli archi che avevano arricchito lo spettro sonoro durante il tour di “Didn’t He Ramble”. A garantire le aperture strumentali rimane il solo Michael Buckley, splendido come sempre tra flauto e sax. Questo da una parte fa sì che venga persa un po’ di quella profondità e di quella componente corale che rendeva così speciali i concerti di qualche anno fa (“Mc Cormack’s Wall”, per esempio, è stata suonata dal solo Glen al piano, una scelta più che comprensibile, date le circostanze). Dall’altra, però, si è guadagnato in potenza perché raramente il gruppo ha suonato così spinto e diretto: “Didn’t He Ramble” è stata una mazzata assurda, con tanto di spettacolare Jam chitarristica finale, ma anche le incursioni nel repertorio dei The Frames, con una “Fitzcarraldo” mai così bella ed una “Revelate” davvero potente.
È un Glen Hansard anche meno ciarliero del solito, che non racconta più storie divertenti e un po’ demenziali, che pare badare maggiormente al sodo, al significato di quello che sta facendo sul palco. Dove, tra l’altro, rimane sempre uno dei più grandi performer di questi ultimi anni: lo si vede quando si esibisce da solo, come nell’iniziale “Bird of Sorrow, piano e voce, gioiello di delicatezza e intensità; o nella successiva “This Gift”, dove violenta la chitarra fino a quasi al punto da farsela esplodere tra le mani. O ancora, più avanti, quando chiama due membri dei suoi amici The Fireplaces sul palco ed esegue “Winning Streak” con loro, senza amplificazione; o quando canta “Grace Beneath the Pines” completamente da solo, anche qui senza microfono, con solo qualche nota di piano come accompagnamento.
A tratti un concerto, a tratti la serata con un amico che ci ha aperto le porte di casa sua, per mostrarci le cose a cui tiene: Glen Hansard è stato tutto questo, l’altra sera, oltretutto in uno di quei posti dove varrebbe la pena andare per sentire chiunque, a prescindere dalla proposta musicale, solo per godere della bellezza di un luogo che è stato creato apposta perché l’arte potesse accadere in quel preciso momento.
Da ultimo, anche scopritore di talenti: perché ad un certo punto della serata ha invitato sul palco la figlia del suo bassista Joe Doyle (con lui sin dai tempi dei The Frames), una ragazzina timida che avrà avuto sì e no quattordici anni. Le ha fatto cantare una sua canzone perché, ci racconta, suo padre gliel’aveva fatta ascoltare qualche tempo prima ed era rimasto folgorato. Effettivamente non ha tutti i torti: la voce è bellissima, già parecchio sicura a dispetto dell’età e il pezzo è interessante e lascia intravedere un talento che in futuro potrebbe anche trovare la via per esprimersi al meglio.
E così ancora una volta Glen Hansard ci ha fregati. Si va a vederlo pensando che tutto sommato lo conosciamo, che è bravissimo ma che in fondo queste cose, dopo tanti anni, non ci impressionano più. Invece andiamo a casa contenti, stupiti, con un sorriso che ci metterà un po’ a scomparirci dal viso. Se consideriamo che ci siamo pure evitati per un soffio un temporale che avrebbe potuto far sospendere tutto, si può dire che sia stata davvero una serata da ricordare…