Non si sa dove siamo. In Gran Bretagna, questo sì ma non ci è permesso scoprire di più. All'inizio e alla fine si vede un uomo che cammina nella neve, poi le telecamere ci conducono qui dentro, in un posto che nonostante la scarsa illuminazione sembra fornire un po’ di conforto.
“Live From Sanctuary”, recita la didascalia ed in effetti è un rifugio quello che l'allestimento sembra evocare.
In fin dei conti, tutto sembra tornare: niente di strano, per un artista come lui, che ha fatto della sottrazione e dell’invisibilità una delle sue principali cifre stilistiche e biografiche, trovarsi a far uscire un nuovo disco di canzoni vere e proprie a quattro anni dal precedente, in piena pandemia, e non potere esibirsi dal vivo a causa delle restrizioni ancora imperanti. Dubitiamo che ne sia contento ma ammetterete anche voi che sembra tutto costruito ad arte per perpetuare il mito dell'inafferrabilità del personaggio.
Questo concerto nell'intimità di un luogo sconosciuto è il primo da due anni a questa parte, che poi sono tre se consideriamo le esibizioni canoniche, quelle del repertorio da cantautore, visto che le ultime volte che lo si era visto in pubblico aveva portato in giro la sua sinfonia “Six Lethargies” (in anteprima, perché su disco è uscita solo l’anno scorso).
Siamo a distanza, davanti a un computer ma non posso negare che ho accolto con grande entusiasmo l’invito a collegarmi: i concerti mancano, non c'è niente da fare, e poi un disco come “Monument” ha lasciato il segno (qui la mia recensione), sentirne i brani dal vivo, sebbene in un contesto surrogato, era un’esperienza che volevo assolutamente fare.
Siamo in diretta? Impossibile dirlo anche se da alcuni piccoli salti di inquadrature oserei scommettere di no, per non tralasciare il fatto che è iniziato con una puntualità ferrea, anche per gli standard inglesi. Non che sia importante, comunque.
Un live streaming garantisce tutto un altro tipo di esperienza, ormai lo sappiamo, non da ultimo quello di essere rivisto e dovremmo prima o poi porci il problema del destino di tutti questi concerti registrati professionalmente, quasi fossero dei film. Impossibile pensare che gli artisti non decidano di metterli a disposizione, magari quando si potrà riprendere normalmente con l’attività live. Nick Cave in realtà l’ha già fatto, i Katatonia pure e non è escluso che prossimamente la lista si allunghi. E lasciatemi dire che, se la consideriamo un'esperienza a latere e non una mera sostituzione degli eventi dal vivo, allora anche guardare qualcuno suonare dallo schermo del computer potrebbe avere un suo perché.
Keaton non fa il suo ingresso in sala, quando la regia ci propone l'inquadratura è già seduto e ha già imbracciato la chitarra acustica. Indossa una giacca chiara sopra una maglia nera ed è come ce lo ricordavamo: magro, barba lunga, occhi ora stanchi ora tristi ma sempre straordinariamente attenti. La telecamera lo inquadra in varie posizioni e i giochi di luce ed ombra sul volto lo fanno talora assomigliare alla versione moderna di un quadro di Caravaggio.
Ogni tanto compare una ragazza mora, che non conosco e il cui nome non ho trovato, che si siede di fianco a lui dandogli le spalle, imbraccia un quaderno da cui non legge nulla, e ricama alcune seconde voci in modo noncurante, come se non le importasse nulla di essere lì. Non verrà mai presentata ma il suo contributo in fin dei conti sarà importante, se non altro nel dare maggiore profondità sonora ai brani.
Per il resto, c’è solo lui con la chitarra, che ogni tanto è acustica, ogni tanto elettrica, mentre due brani sono suonati alla tastiera. Non una parola tra un pezzo e l'altro, solo il rumore delle dita che si staccano dalle corde e qualche breve sospiro per prendere fiato. Parlerà al pubblico più tardi, una mezz'oretta di chiacchierata nella sezione chat del video (che continuerà a vomitare messaggi con una velocità preoccupante per tutta la durata del concerto, evidentemente neanche da casa la gente riesce a resistere al bisogno di commentare qualunque cosa) ma adesso esistono solo le sue canzoni ed ha perfettamente senso che sia così.
Si parte con “Ambulance” e “Career Day”, entrambe da “Monument” ed è la prima volta in assoluto che vengono suonate dal vivo. L’esecuzione è scarna, essenziale, bellissima. Ancora più bella perché la voce sottile e fragile come è sempre stata, ha qui tutta una serie di imperfezioni che rendono ancora più affascinanti i brani cantati. Da questo punto di vista “Bed”, altro pezzo dal nuovo album, è bellissima e pare che quasi non riesca a reggere tutta l’intensità e la tensione sprigionata.
Un po’ inattese arrivano “Sweetheart, What Have You Done To Us?” e la straziante “10am Gare Du Nord” (che credo racconti la fine della storia d’amore con la sua vecchia compagna, la musicista Soko), due esecuzioni bellissime che le hanno decisamente rivitalizzate, erano due brani che non mi avevano mai colpito troppo in precedenza.
“No Witnesses” è eseguita alla tastiera, suonata leggera, con pochissime note, cantando come a chiedere scusa di essere lì. “Husk” è invece l'opposto, quasi rumorosa, con pennate robuste e la voce che sale nel ritornello. Ma d'altronde tra i pezzi nuovi è anche l’unico che presenta un qualche squarcio di luminosità, ci può stare.
E ancora, “You Don't Know How Lucky You Are”, unico estratto da quel “Dear” che lo ha lanciato e che onestamente mi aspettavo fosse più rappresentato.
“Prayer”, dedicata al padre recentemente scomparso, è una delle più belle in assoluto, anche questa suonata alla tastiera, anche questa quasi sussurrata, e una tristezza che sembra però non volere lasciarsi andare alla disperazione.
Poi “You”, sempre dal secondo disco “Birthdays”, non ispirato come il precedente anche se, ripeto, questa sera questi brani hanno brillato di luce nuova.
C’è spazio anche per una cover di “Hold On To Magnolia”, un classico del repertorio di Jason Molina nel suo progetto Songs: Ohia, un artista che, almeno musicalmente, ha diversi punti di contatto con Keaton, che infatti riesce a renderla senza snaturarne lo spirito originale.
Chiude “Bygones”, che è anche l’ultima traccia di “Monument”: dura un po’ meno della versione originale, mancano le orchestrazioni ma forse proprio per questo, quel verso conclusivo “I give up I'm gonna live if it kills me”, ripetuto quasi come un mantra, fa ancora più effetto, a segnare un futuro che non è ancora dato di decifrare, né a lui né tantomeno a noi.
Dura un'ora ma è abbastanza: se il punto era suonare un po’ del nuovo disco e comunicare di volerci essere nonostante le circostanze difficili, allora ha raggiunto lo scopo. Speriamo di poterlo vedere in presenza, prima o poi, ma questa sera Keaton Henson ha dato l’ennesima prova di essere un artista di cui abbiamo bisogno.