Chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo (e, almeno per il pubblico europeo, le occasioni sono state poche, con solo una manciata di date in Regno Unito, Scandinavia e Paesi Bassi) non può che confermare che Jason Isbell e i suoi The 400 Unit sono, senza dubbio, una delle migliori live band in circolazione. Cantautore rock tra i migliori della sua generazione, grazie a testi lodati per onestà, introspezione e sensibilità sociale, Isbell ha saputo costruire una carriera di altissimo livello, con album che spaziano dal capolavoro Southeastern al più recente Weathervanes, muovendosi nel solco – per quanto riguarda sound e scrittura – della tradizione di artisti del calibro di Neil Young e Tom Petty.
Solista dal 2007, dopo gli esordi nei Drive-By Truckers, Isbell, originario dell’Alabama, ha mostrato una crescita artistica costante, affermandosi come uno dei protagonisti più rispettati della scena Americana. La sua carriera è anche segnata da una solida integrità artistica, un’eredità del mentore John Prine, che lo ha guidato verso una scrittura sempre più personale e profonda, capace di esplorare temi come la vulnerabilità, la redenzione e il complesso e contraddittorio legame con le radici del Sud. Con ogni nuovo album, Isbell è riuscito ad evolversi senza mai tradire le proprie origini, ma anzi arricchendole con nuove influenze e una maturità musicale che lo rende un punto di riferimento per tutta una nuova generazione di cantautori.
Seguendo la lezione di Neil Young e Tom Petty - il cui nome è legato indissolubilmente alle loro band di supporto (i Crazy Horse per il canadese e gli Heartbreakers per il floridiano) - dal 2009 Isbell è affiancato dai 400 Unit, il cui nome è un omaggio al reparto psichiatrico dell’Eliza Coffee Memorial Hospital di Florence, Alabama, simbolo del legame della band con il Sud e con le storie di vulnerabilità umana. Il nucleo originale della band proviene dalla leggendaria scena musicale di Muscle Shoals, nota per la sua tradizione rock e soul.
La formazione più longeva della band ha incluso Derry deBorja (tastiere), Jimbo Hart (basso), Chad Gamble (batteria), Amanda Shires (violino) e Sadler Vaden (chitarra). Questi musicisti, dotati di una sensibilità artistica straordinaria, hanno contribuito a plasmare il sound di Isbell, caratterizzato da influenze rock, folk, country e southern. Grazie a un riuscitissimo filotto di album come Something More Than Free, The Nashville Sound, Reunions e Weathervanes, Jason Isbell & The 400 Unit hanno consolidato la propria fama di live band, grazie a performance incandescenti dalle quali emerge un affiatamento musicale unico.
La formazione attuale, che include Anna Butterss al posto di Jimbo Hart, vede la mancanza di Amanda Shires e l’aggiunta di Will Johnson alla chitarra e alle percussioni, è senza dubbio la migliore nella storia della band. Chi scrive ha avuto modo di vederli recentemente alla Falkoner Salen di Copenhagen e può testimoniare che la band è capace di passare senza soluzione di continuità dalle sfuriate rock ai delicati momenti acustici con una perizia che è di pochi. Insomma, assistere oggi a un concerto di Jason Isbell & The 400 Unit è come prendere parte a una masterclass di Americana.
Per chi volesse farsi un’idea di come suonano oggi, a inizio ottobre è uscito Live from The Ryman, Vol. 2, un disco dal vivo che raccoglie 15 versioni live di brani tratti dagli ultimi due album in studio della band, Reunions (2020) e Weathervanes (2023), oltre a una splendida interpretazione di “The Last Song I Will Write”, tratta dal debutto di Isbell del 2009, e a una toccante cover di “Room at the Top” di Tom Petty. Il disco è stato registrato durante le varie residency che Isbell ha tenuto allo storico Ryman Auditorium di Nashville negli ultimi sei anni, una sorta di seconda casa per lui, con oltre 50 sold out.
Live from The Ryman, Vol. 2 è il seguito concettuale del disco Live from The Ryman del 2018, con cui condivide anche la copertina, che riproduce le iconiche vetrate del teatro. Il primo volume, prodotto da Dave Cobb, soffriva di una qualità audio non eccelsa, tanto che sembrava di ascoltare un bootleg ufficiale la cui fonte sonora era il soundboard. Nonostante la scaletta eccellente, la potenza live dei The 400 Unit non veniva pienamente espressa. Questo secondo volume, registrato e co-prodotto da Cain Hogsed, ingegnere di lungo corso della band, è acusticamente spettacolare, tanto che sembra di essere appoggiati alle transenne vicino al mixer, un posto solitamente riservato ai cosiddetti “riccardoni”.
Le versioni delle canzoni in Live from The Ryman, Vol. 2 si candidano a diventare versioni definitive dei brani di Reunions e Weathervanes. Per esempio, la versione dal vivo di “King of Oklahoma” è sensazionale, con una coda elettrica dove Isbell e Vaden si scambiano gli assoli che da sola vale il prezzo del biglietto. Le versioni torrenziali di “Miles” e “This Ain’t It” sono incredibili: la prima mette insieme Neil Young, Allman Brothers Band e George Harrison, mentre la seconda è un rock alla Rolling Stones in modalità Sticky Fingers.
(Parentesi per i musicisti: il modo in cui Jason Isbell si accorge di avere la chitarra scordata all’inizio di “This Ain’t It” e incurante di tutto ciò fa shredding per 45 secondi mentre la rimette a punto è semplicemente meraviglioso).
La nuova versione di “Last Song I Will Write” supera di gran lunga l’originale, grazie ai cori e al violino di Amanda Shires, che arricchiscono la canzone prima di una coda strumentale ben riuscita, mentre la cover di “Room at the Top” di Tom Petty, un brano forse poco conosciuto nel suo catalogo, è eseguita con la giusta reverenza.
Per capire la versatilità dei The 400 Unit, basta sentire come passano dal rock AOR di “Save the World”, “When We Were Close” e “Overseas” – dove sembrano una via di mezzo tra i Dire Straits e The War on Drugs – a pezzi acustici come “Strawberry Woman” e “Cast Iron Skillet”, dove la band cambia formazione, con deBorja alla fisarmonica, Vaden alla chitarra slide e Butterss al contrabbasso. Un’ulteriore dimostrazione di come questa band sia fatta da fuoriclasse e di come solo un artista come Jason Isbell possa assemblare un disco dal vivo concentrandosi esclusivamente sugli ultimi due album senza sentire la mancanza dei cosiddetti classici.