L’arte, è un dato di fatto incontrovertibile, non necessità di sincerità. Anzi, l’artificio e la mistificazione, spesso, permettono di raggiungere risultati che col cuore in mano difficilmente possono essere centrati. E’ la distanza dalla materia, la rielaborazione del personale attraverso un lessico che universalizzi l’esperienza mediante ben definiti canoni estetici. Il rock, però, per sua stessa natura, pretende un quid ulteriore rispetto agli accorgimenti tecnici, al talento o a norme comportamentali derivate dallo studio e dall’esperienza: il rock deve essere soprattutto vero, come sono vere la gioventù, la rabbia, la protesta, l’amore, il sesso e tutto ciò che racconta. Il linguaggio del rock è diretto, senza fronzoli, non richiede vocabolari, non dev’essere tradotto, né spiegato: se arriva diretto al cuore ha assolto il suo compito.
Di Jason Isbell si potrà dire anche che non ha mai inventato niente, che si è sempre mosso entro lo steccato di un genere, quello dell’americana e del rock, sfornando grandi dischi, ma scegliendo una narrazione prevedibile e poco originale. Di certo, però, nessuno potrà mai obbiettare che non sia un artista diretto e sincero, che non teme di mettersi a nudo e di raccontarsi senza filtri.
Jason la vita l’ha vissuta davvero, la vita reale, intendo, quella che sta dietro le luci dello star system, quella crudele che ti sbrana al minimo sbaglio, quella che non fa sconti e ti inchioda alle tue responsabilità. Un tunnel buio e profondo di Jack Daniel’s e cocaina lo stava inghiottendo per sempre, ma con l’aiuto della moglie Amanda Shires e dell’amico Ryan Adams, è riuscito a rivedere la luce. Un’esperienza terribile, raccontata nel suo primo album solista, Southeastern (2013), crudo resoconto della dipendenza, ma anche orgogliosa affermazione di una rinata creatività artistica, poi confermata dagli ottimi Something More Than Free (2015) e The Nashville Sound (2017), che ha segnato anche il ritorno con la sua backing band, The 400 Unit.
Questo Live From The Ryman, arriva cinque anni dopo il precedente disco dal vivo (Live From Alabama), e ribadisce quanto sia verace e diretta l’idea che Isbell ha del proprio ruolo di songwriter. Da tempo, non ascoltavo un live così appassionato ed emozionato, autentico al punto di rasentare l’ingenuità.
Nessuna barriera separa l’artista dal proprio pubblico, Isbell canta ogni canzone con la disperata intensità di chi si aggrappa all’ultimo anelito vitale, come se respirare e cantare fossero un tutt’uno inscindibile. C’è più vita che arte in questi tredici brani, e dolore, gioia, amore, disperazione e redenzione non sono concetti astratti, non sono (solo) la narrazione romanzata di chi sa scrivere grandi canzoni, ma si percepiscono come sentimenti reali e condivisi, quasi palpabili fisicamente.
Ascoltare Isbell che canta Cover Me Up, straziante resoconto del calvario dell’alcolismo e della battaglia per uscirne, è come vivere esattamente la stessa esperienza; allo stesso modo, Elephant, dolente omaggio a un’amica malata, trasmette a ogni singola nota un groppo di sofferenza che, feroce, si annoda alla gola.
Grazie a una band che si mette al servizio delle canzoni, con una performance low profile ma efficacissima, e al violino e la voce di Amanda Shires, la cui dolcezza fa da contrappunto alla ruvida schiettezza del marito, Isbell inanella un filotto di canzoni che lasciano senza fiato, sia quando abbraccia la chitarra elettrica graffiando con il suo rock aspro e quadrato (il ringhio di Cumberland Gap, la tirata grezza e basilare di Super 8), sia quando sfodera gioiellini di melodia da cantare a squarciagola come The Life You Chose o Last Of My Kind, o si raccoglie nell’intimità asciutta di If We Were Vanpires.
Se esistesse un vademecum per la pubblicazione del perfetto disco live, dovrebbe essere improntato a questo Live From The Ryman: un’ora di musica col cuore in mano, in cui la vita supera l’arte, per intensità ed emozioni. Imperdibile.