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REVIEWSLE RECENSIONI
15/10/2020
Bartees Strange
Live Forever
"Who gave them fuckin' niggas those rock guitars?”, cantavano i Body Count. Bartees Strange è il nuovo miracolo americano, un artista in grado di amalgamare con disinvoltura indie-rock e melodie black con incursioni nell’elettronica e nel songwriting, in un esordio destinato a lasciare il segno.

Nulla dev’essere per forza bianco o nero, tantomeno la musica. In tempi di continua polarizzazione, gli artisti che mescolano le carte in tavola risaltano per originalità e disorientano l’ascoltatore in cerca di sicurezze. Ma mentre è più comune un bianco che si cimenta con il soul - forse perché noi siamo più rodati nel colonialismo culturale - un’anima black che decide di dedicarsi all’indie-rock e al post-punk fa notizia come il cane che morde l’uomo. I precedenti, d’altronde, si contano sulle dita di una mano: Kele Okereke dei Bloc Party, Tunde Adepimbe dei TV On The Radio, le Big Joanie e Franklin James Fisher degli Algiers. Come loro, l’esperienza di Bartees Strange, al secolo Bartees Cox Jr., si distingue come qualcosa di completamente diverso e fuori dagli schemi.

Il fatto è che non tutti hanno le opportunità e, di conseguenza, gli strumenti per spingersi oltre i muri sociali e culturali in cui si nasce, si cresce e, qualche volta, si muore. Bartees Strange è figlio di una cantante lirica e di un ufficiale dell’esercito. Nasce a Ipswich, in Inghilterra, cresce in Oklahoma e sfoga la sua vena artistica tra Washington e Brooklyn. Ci immaginiamo che ci sia questa vocazione alla multi-cittadinanza alla base della sua ispirazione. Dopo qualche esperienza come membro di band, che con il senno di poi si capisce perché gli andavano strette come un paio di scarpe di qualche numero più piccole, scopre una florida e raffinata vena cantautorale e decide di non darsi delle regole. Resta colpito proprio dai TV on The Radio e dal loro approccio a maglie larghe alle categorie e ai generi, un’attitudine che solo pochi posti al mondo come Brooklyn riescono a trasmetterti. A marzo di quest’anno, in piena clausura da pandemia, dà alle stampe un EP comprensivo di una serie di cover di brani dei The National. E pochi mesi dopo, a rendere meno horribilis questo duemila e venti, pubblica “Live Forever”, un disco di esordio che, credetemi, è una delle novità più sorprendenti uscite ultimamente.

In un’intervista a NPR, Bartees Strange sostiene di sentirsi equidistante da rapper e cantanti, consapevole del fatto che il rock, in tutte le sue derivazioni, abbia perso un'enorme opportunità di crescita e di evoluzione limitando il coinvolgimento della componente afro-americana. Dall’altra parte, l'hip-hop in questo momento in America ha una enorme influenza sul resto della cultura e l’indie-rock, almeno nei testi, sembra cantare sempre la stessa canzone e risulta stagnante. Ma Washington ha il microclima più adatto a favorire gli innesti tra due mondi spesso antitetici, una città dalla forte tradizione black ma anche punk e hardcore. “Live Forever” è la sintesi di tutto questo.

L’esordio di Bartees Strange è composto da undici tracce e altrettante anime, ma con un’unica identità riconoscibilissima di fondo. Si può scegliere da quale brano partire, come nelle storie interattive che prevedono percorsi differenti, e lasciarsi guidare in modi diversi. “Jealousy”, il primo brano, è una vera e propria sessione di riscaldamento. Solo voce e tappeti di sottofondo, una breve cerimonia di iniziazione per addentrarsi nel disco con l’equipaggiamento più adatto. Si spengono le luci e inizia lo spettacolo. “Mustang” è una bomba di synth su chitarre elettriche, e c’è poco da aggiungere. Sulla stessa scia è “Boomer”, scelto come singolo, un brano che forse costituisce l’episodio meno personale dell’album, con qualche ingenuità di arrangiamento e di soluzioni armoniche.

Ma, subito dopo, si comincia a fare sul serio: dalle atmosfere trap di “Kelly Rowland” ai ricami di fiati jazz su batteria breakbeat di “In a Cab”, preludio al perfetto di mix di cantato soul su base post-punk di “Stone Meadows”, la vera punta di diamante di “Live Forever”. Ha dell’incredibile anche il capovolgimento electro successivo, “Flagey God” e il profondissimo trip-hop di “Mossblerd”, in quota Tricky. Fino a quando, a sbiancare il tutto, ecco la chitarra acustica americanissima e il songwriting di “Far”, una traccia dai due volti, pronta a prendere il volo con l’accelerazione e la voce distorta della coda. “Fallen for You” è la seconda parentesi unplugged del disco, una struggente ballad che spazia nel country e che prepara il campo all’elettronica di “Ghost”, l’ultima canzone, tanto eterea all’inizio quanto quadrata e regolare da metà in poi, un compendio di tutto quello che Bartees Strange sa fare bene.

Non c’è un momento in cui, osservando il progetto “Life Forever”, si percepisca un’impressione di confusione. È la straordinaria vocalità black a fare da collante a un mondo variopinto in cui, orfani di una personalità così decisiva, faremmo a gara a separare i colori. Nulla dev’essere per forza bianco o nero, sostiene Bartees Strange. C’è un po’ di tutto in tutto, e la sua musica ne è la prova.


TAGS: Bartees Strange | robertobriozzo