Fino a qualche anno fa si diceva che il paradosso dei Rolling Stones fosse che, riconosciuti da più parti come la più grande live band del mondo, non fossero mai riusciti a realizzare il disco dal vivo definitivo della storia del rock. Una lacuna ormai abbondantemente colmata, nel momento in cui hanno deciso di aprire al pubblico i loro archivi. Alla fine, con gruppi come il loro, funziona così: impossibile assemblare una registrazione che renda giustizia a ciò che sono sul palco; molto meglio affidarsi alle versioni integrali dei concerti, possibilmente più di uno, possibilmente provenienti da varie fasi della loro carriera.
Degli Stones è ormai uscito di tutto e di più, praticamente ogni tour che hanno fatto nei loro sessant’anni di storia è rappresentato, di fatto rendendo superflui gli album dal vivo del passato, belli ma sempre con quel senso di incompletezza a rovinare la festa.
Live at The Wiltern è l’ultimo arrivato in questa lunga serie e si candida seriamente a diventare uno dei più belli di sempre (se non il più bello in assoluto), ammesso e non concesso che questo tipo di classifiche abbiano un senso.
Siamo nel 2002, ai tempi del Licks World Tour, che celebrava i 40 anni della band sull’onda della pubblicazione della raccolta 40 Licks. Non c’era stato più nulla da Bridges to Babylon, datato 1997 e ancora ultimo disco in studio di Jagger e soci, ragion per cui le aspettative erano piuttosto alte.
Ad accrescere l’hype, l’annuncio che il giro di concerti che stava per iniziare si sarebbe svolto parallelamente su tre formule diverse: stadi, arene, teatri. Tre tipologie diverse di venue, per tre tipologie di show radicalmente differenti l’uno dall’altro, per atmosfere, intenzioni, e setlist proposte.
Già, le setlist. I Rolling Stones non sono mai stati una band troppo fossilizzata nelle proprie scelte, da tour a tour la selezione dei brani ha sempre subito mutamenti e, dato non trascurabile, hanno sempre amato rispolverare chicche poco conosciute del proprio catalogo. Negli ultimi anni, tuttavia, privilegiando gioco forza sempre di più la dimensione degli stadi, è stato abbastanza inevitabile rimanere intrappolati in una sorta di inerzia da greatest hits.
Il Licks Tour avrebbe, secondo le loro intenzioni, spazzato via tutto questo: avrebbero portato dal vivo quante più canzoni possibile, tante delle quali non venivano suonate da tempo immemore, e avrebbero approfittato del cambiamento di location per scombinare quanto più possibile le carte in tavola.
Come chiunque ha potuto vedere in Four Flicks, il quadruplo dvd che fecero uscire l’anno successivo, o in misura ridotta nel doppio Live Licks, mantennero in pieno le promesse.
Questa ulteriore testimonianza va intesa come una sorta di compendio di quel tour, anche se risulta decisamente superiore, per qualità complessiva e selezione dei brani, ai tre concerti contenuti nel cofanetto.
Siamo al Wiltern Theater di Los Angeles, uno dei più antichi e suggestivi della città, capienza circa 2500 posti. È il 22 novembre del 2002, quattro mesi dopo il concerto dell’Olympia di Parigi immortalato nel dvd. In una cornice così intima e raccolta, il gruppo si trasforma, come sa chiunque abbia avuto modo di ammirare i tre concerti teatrali del 1995, all’epoca del progetto Stripped, anticamera del più ampio esperimento che avrebbero tentato sette anni dopo.
Lontani dalle mastodontiche scenografie degli stadi e da un ambiente che, per quanto spettacolare, risulta anche fortemente dispersivo, Jagger e soci salgono su un piccolo palco, a stretto contatto con gli spettatori, un clima raccolto che va ad influenzare anche la lista delle canzoni suonate.
Che certi loro brani non funzionino negli spazi grandi, è un qualcosa che ci hanno sempre tenuto a ripetere; dimostrando, loro che hanno una cultura live fuori dal comune e che non hanno mai dimenticato gli anni della gavetta, sebbene siano passati secoli, di sapere benissimo che i concerti negli stadi sono un rito che sfugge completamente alle normali dinamiche di uno spettacolo dal vivo e che per ritrovare il sangue e il sudore di un concerto rock bisogna per forza di cose restringere il campo d’azione.
Il Licks World Tour ha permesso loro di fare questo, di calcare con una certa regolarità quei palchi che, per una mera questione logistica, non erano più in grado di calcare.
Quella sera il Wiltern Theater era, inutile dirlo, al limite della capienza, pieno zeppo anche di ospiti illustri, che la telecamera si diverte ad inquadrare poco prima dell’inizio (riconosciamo, tra gli altri, Neil Young, Tom Petty e Sheryl Crow).
L’allestimento è ovviamente spartano e sul palco ci sono solo i quattro Stones (Bill Wyman aveva lasciato poco prima di Voodoo Lounge) e il nutrito gruppo di musicisti che da anni li accompagna: ci sono ovviamente il bassista Darryl Jones ed il pianista Chuck Leavell, ormai autentiche istituzioni, il solito trio di coristi composto da Lisa Fischer, Bernard Fowler, Blondie Chaplin, più una sezione fiati di quattro elementi (Bobby Keys e Tim Ries al sax, Kent Smith alla tromba, Michael Davis al trombone). Inutile dire che il suono è pazzesco e che in uno spazio così raccolto il tutto viene valorizzato ancora di più.
L’apertura è affidata a “Jumpin’ Jack Flash” ma, ad eccezione della cinquina in chiusura, i classici non faranno la parte del leone in questo concerto. Se si pesca dai lavori più conosciuti, è per proporre cose meno usuali, come ad esempio “Live With Me” (da Let It Bleed, che arriva qui in una versione davvero terremotante), “No Expectations” (splendida resa semi acustica), la vecchissima ballata “That’s How Strong My Love Is”, e soprattutto una meravigliosa “Stray Cat Blues”, uno di quei pezzi che Jagger ha dichiarato di non amare tantissimo, ma di aver voluto ripescare proprio perché in teatro avrebbe suonato benissimo.
Il tiro è pazzesco e la band è in forma smagliante, le bordate iniziali di “Neighbours” (piccolo gioiello da Tattoo You) e “Hand of Fate” (a suo modo un classico, sebbene venga da un disco non sempre lodato come Black and Blue) sono da capogiro, ma altrettanti efficaci sono le incursioni nel Soul (una fantastica “Everybody Needs Somebody to Love, con la partecipazione straordinaria di Solomon Burke) e nel Funk (l’inattesa “Dance, Part 1”, che se all’epoca di Emotional Rescue poteva aver fatto storcere la bocca ai più, in questa veste funziona benissimo), fino ad arrivare ad una “Can’t You Hear Me Knocking” in cui succede di tutto, fiati in evidenza e sfumature Blues davvero irresistibili.
Regala sorprese anche la canonica sezione con Keith Richards dietro al microfono, a cimentarsi con due episodi che definire “minori” sarebbe un eufemismo: “Thru and Thru” ha qui un feeling cupo e vagamente straniante, che i fiati supportano a dovere, mentre le dilatazioni strumentali della seconda parte la rendono una delle perle assolute del concerto; altrettanto non si può dire dei ritmi simil Reggae di “You Don’t Have to Mean It”, ma bisogna ammettere che, rispetto alla versione che compariva su Bridges to Babylon, qui siamo su ben altri livelli qualitativi.
È solo nella parte finale che arrivano alcune di quelle cartucce pesanti che infiammano anche gli stadi, e che trasformano comprensibilmente in una bolgia gli spalti del Wiltern: “Bitch”, “Honky Tonk Women”, “Start Me Up”, “Brown Sugar”, “Tumbling Dice”: le abbiamo sentito milioni di volte, sono comparse in decine di live, ma sparate così, in sequenza, con la stessa cattiveria degli esordi, ottengono un effetto davvero dirompente.
Dicevano che erano vecchi già nel 1982 e ricordo perfettamente che all’annuncio del Licks Tour le battute in tal senso si sprecarono.
All’epoca però la retromania era lontana, i cosiddetti “dinosauri del rock” subivano la concorrenza durissima degli artisti più giovani e non si era ancora arrivati all’isteria di massa dei biglietti a 300 euro e del “potrebbe essere l’ultima volta, bisogna vederli assolutamente”, frase che ha fatto da colonna sonora al ritorno ultra mainstream di tanti nomi che per decenni erano stati fortemente ridimensionati.
Varrebbe quindi la pena ricordare che in questo show losangelino Mick e Keith non avevano ancora compiuto sessant’anni: se ci sembravano decrepiti era perché nel 2002 si ragionava in un altro modo, ma dal punto di vista oggettivo, la performance che offrono è di un’intensità assolutamente senza pari.
Il miglior disco dal vivo dei Rolling Stones? Impossibile dirlo anche perché, con un catalogo così vasto, ogni appassionato avrà il suo preferito. Mi limito a dire che, assieme a El Mocambo di un paio di anni fa, questo Live at The Wiltern rappresenta il modo migliore per rendersi conto del perché questa possa essere considerata una delle migliori live band del pianeta.