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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
11/05/2020
Dredg
Live At The Fillmore
Canzoni che sembrano sul punto di spezzarsi in due per la commozione, che camminano in bilico su un dirupo emotivo, che guardano l’orizzonte in attesa del crepuscolo

Ci sono gruppi che, nonostante (o forse proprio per quello) la qualità altissima della proposta, restano sempre oggetto di culto, patrimonio di una ristretta cerchia di appassionati che hanno avuto la fortuna di incontrarli, magari casualmente, altre volte grazie al passaparola. E’ il caso dei californiani Dredg, che, almeno qui in Italia (negli States, da cui provengono, è tutta un’altra storia) vivono nel sottobosco di un anonimato pressochè totale. E questo, nonostante siano circolazione da quasi vent’anni e abbiano all’attivo cinque dischi in studio (oltre a questo live) uno più bello dell’altro.

La band (il cui nome deriva dall’acronimo delle iniziali dei suoi componenti: [D] Drew [R] Roulette [E] Engels [D] Dino [G] Gavin) si forma a Los Gatos nel 1993, e inizia suonando un potente nu metal, dal quale abdica fin dal primo full lenght, intitolato Leitmotif e pubblicato nel 1998. Da questo momento in avanti, le cose cambiano radicalmente: band colta, aperta alla multimedialità e a una visione più ampia possibile della propria arte, che li porta a scrivere liriche profonde e a creare veri e propri concept album, i Dredg inanellano un breve filotto di dischi (che trova il suo vertice ne El Cielo del 2002, album di ostica bellezza), in cui il livello di ispirazione è sempre altissimo, anche quando la proposta vira più decisamente verso la melodia (cosa che avviene a partire dal superbo Catch Without Arms, opera del 2005 che conquista la prima piazza di Us Heat).

Il loro alternative rock chitarristico coagula la vibrante intensità degli esordi metal, la visione sperimentale e la complessità del prog e una lacerante vena malinconica di derivazione emo. Live At The Fillmore fotografa al meglio questa miscela musicale esplosiva e testimonia di una band che dal vivo sa essere efficace come e, forse, anche meglio che in studio, grazie alle doti tecniche dei suoi componenti: le imprevedibili linee di basso di Drew Roulette, la prima mente pensante del gruppo, il drumming secco, nervoso, spesso dispari, di Dino Campanella, la chitarra eclettica di Mark Engels, capace al contempo di leggere pennellate e di rumorose aggressioni, e la voce disperata di Gavin Hayes, una sorta di crocevia della lacrima, a metà strada fra Adam Duritz dei Counting Crows e Robert Smith dei Cure.

In scaletta, ben diciannove brani tratti dai precedenti dischi in studio (ad eccezione di Stone By Stone, comparsa solo come B side del singolo Catch Without Arms), rinvigoriti nel suono anche dalla presenza sul palco dall’amico Chi Cheng, bassista dei Deftones. Un live splendido, palpitante, costruito sul saliscendi di emozioni che nascono dalla contrapposizione fra melodie malinconicissime, la voce Hayes, che trasmette costantemente un senso di imminente tragedia, e gli improvvisi e densi muri di chitarra di Engels, artefice di un vigoroso wall of sound.

Canzoni che sembrano sul punto di spezzarsi in due per la commozione, che camminano in bilico su un dirupo emotivo, che guardano l’orizzonte in attesa del crepuscolo. Canzoni dirette al cuore, che conquistano con l’immediatezza melodica di un ritornello, che fondono il passo meditabondo del soliloquio interiore al fremente respiro dell’epica, e che al contempo trovano complessità espositiva in una struttura spesso imprevedibile e mai lineare.

In scaletta, si alternano così la veemente sfuriata di Ode To The Sun, con la voce Hayes tirata al limite dell’estensione, la combustione della drammatica Whoa Is Me, portata al parossismo nel ritornello, gli stop and go del progressive aggiornato di Triangle, l’epos romantico di Stone By Stone, l’ariosa melodia di Catch Without Arms, il beat elettronico e lo sfarfallio di tastiere dell’irresistibile Sang Real, e la bordata strumentale della conclusiva 90 Hour Sleep.

Un’ora e un quarto senza un calo di tensione, in cui i Dredg sfoderano tutto il meglio di un repertorio che troverà nuova linfa nei due successivi The Pariah, The Parrott, The Delusion (2009), ispirato all’opera di Salman Rushdie e dedicato all’amico Chi Cheng che morirà durante la lavorazione del disco, e Chuckles and Mr Squeezy (2011), al momento capitolo finale di una discografia impeccabile.

La band, infatti, si è presa una lunga pausa di riflessione, che sembra essersi interrotta solo nel 2018, quando i Dredg hanno annunciato che sono iniziate le registrazioni per un nuovo album. Che al momento, tuttavia, ancora non ha visto la luce.


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