Il blues va fatalmente soggetto al desiderio e allo stato d’animo del singolo cantante, per cui anche due soli cantanti non daranno mai una medesima interpretazione di uno stesso brano, che neppure lo stesso cantante potrà eseguire due volte in maniera identica. Ascoltare B.B. King nel Live at San Quentin non può far altro che evidenziare la profondità e giustezza di queste affermazioni. Scorrono via via i classici di un artista ormai all’epoca sessantacinquenne e ci si accorge di quanto cuore, genuinità e freschezza vi siano dentro pur avendoli già ascoltati centinaia di volte in tutte le svariate versioni. La magia di un genere e di uno dei suoi più grandi maestri non svanisce mai, assumendo contorni inaspettati e superando ogni tipo di confine mentale e fisico. Così nel 1990, in una calda e umida domenica di fine maggio, il chitarrista nato nel Mississippi suona insieme alla sua band nella San Quentin State Prison, la più vecchia prigione della California, situata a nord di San Francisco, regalando attimi di spensieratezza ai detenuti, accarezzandoli con la sua storia di redenzione e riscatto tramutatasi in Musica, scialuppa di salvataggio per chi ancora crede che la speranza sia una risorsa, pure nelle condizioni più difficili e umilianti.
Nessuno meglio di lui, cresciuto in un’immensa piantagione di cotone, poteva donare una nuova prospettiva a persone allontanate dal mondo, spesso non solo e unicamente per colpa loro. Riley B. King, il contadino di Itta Bena, colui il quale, tra alti e bassi, vivendo quotidiane discriminazioni e soffrendo nel suo profondo, è riuscito a mantenersi forte, ha imparato a resistere alle più dure lezioni di vita e ha scalato la montagna del successo: ora sa che la cima appare sempre più bella per chi ha iniziato la salita dal gradino più basso. Le sue canzoni, i suoi discorsi valgono ben più di un sermone se rivolte agli ultimi, più vicini al baratro della sofferenza e dell’indifferenza che al potere redentore dell’Arte e di tutte le sue espressioni esistenziali.
Non è un caso che l’esibizione live cominci con due composizioni dai forti connotati taumaturgici, gli evergreen "Let the Good Times Roll" e "Every Day I Have the Blues", due modi diversi e per certi versi opposti di affrontare la dura realtà in cui si vive. Il primo è uno standard di Luis Jordan And His Tympany Five, sfornato poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e pensato per far dimenticare i problemi del mondo e vivere l’attimo, quel particolare momento. Ebbene, una simile ambizione musicale non è quindi una novità, un tema principalmente caro ai giorni nostri e comunque riecheggia in maniera altisonante e appropriata (esempio di come una semplice canzone possa scardinare gerarchie e luoghi comuni) anche nella sede di questo concerto. Si tratta di un invito a fare festa, la vita è una sola e vale la pena di spenderla bene in quanto il tempo non è qualcosa da dare per scontato. Un pezzo e un titolo potenti, capaci di oltrepassare la cultura afroamericana e diventare un compendio di frasi e concetti universali, sfondando la spessa coltre ideologica che divide il “pensare” da uomo bianco rispetto a quello di un uomo nero.
"Every Day I Have the Blues" del leggendario Memphis Slim si collega invece all’estrema essenza del genere, alla capacità di trovare aspetti tristi nell’allegria, e allegri nella tristezza, alla raffigurazione di uno stato d’animo e un modus vivendi in grado di saper affrontare qualunque avversità con il sorriso sulle labbra, malgrado tutto. La chitarra "Lucille" è ispirata e avvolgente, a proprio agio come il suo Padrone, mirabolante, instancabile motivatore ed entertainer, mentre scorrono altri successi come "Whole Lotta Loving" di Fats Domino e l’inno alla libertà di scelta "Ain’t Nobody’s Bizness" di Bessie Smith, ma sono l’autografa "Sweet Little Angel" insieme alla celebre "Never Make a Move Too Soon", che incorpora in coda il leggendario traditional "Catfish Blues", a infiammare gli animi degli spettatori, liberi per la breve durata di un concerto dal peso di un’esistenza difficile, frutto di scelte e circostanze sbagliate.
C’è spazio pure per "Into the Night", il pezzo che rilancia la carriera di King negli anni Ottanta e brilla per la prima volta di luce propria in questa location così particolare, ma uno degli highlight dello show rimane l’epica "The Thrill is Gone", forse la sua hit più rappresentativa in assoluto, potente e ispirata rilettura dello standard reso inizialmente famoso da Roy Hawkins per poi diventare, con un arrangiamento orchestrale e assoli di chitarra da brividi, uno dei brani top di Completely Well, pubblicato nel 1969.
“Qualcuno probabilmente penserà: perchè suonare il blues? Ne ho già molti ogni giorno di momenti tristi. Per me il blues è qualsiasi cosa abbia a che fare con la guarigione, è una cura; la musica può essere divertente e allo stesso tempo malinconica, nostalgica, ovvero blueseggiante. Si tratta, con semplicità, di un tipo di musica che chiamiamo blues e fa star bene…”.
Solo the Beale Street Blues Boy, ovvero B.B. può pronunciare tali parole durante un concerto in una prigione e ricevere un’ovazione e gli ultimi tre pezzi in scaletta proseguono il tripudio; tra fischi di apprezzamento e applausi scorrono "Nobody Loves Me But My Mother", "Sweet Sixteen" e una torrida "Rock Me Baby", nelle quali ancora una volta si può percepire tutta l’anima di King e godere della sua pregiata ed esperta band del periodo, temprata da anni di estenuanti tournée. Sono tutti navigati sessionmen di lusso e si va dai fiati elettrizzanti del trio James Bolden (tromba), Edgar Synigal/Walter King (sassofoni), all’organo, piano e tastiere di “uragano” Eugene Carrier. E se, onestamente, la chitarra d’accompagnamento di Leon Warren si ode solo in sottofondo, la sezione ritmica è invece immanente, incollata ad arte alle canzoni, per merito di Calep Emphrey e Michael Doster, rispettivamente batteria e basso di fenomenale portata.
Live at San Quentin include pure una registrazione in studio di "Peace to the World", un motivo R&B dalle accentuate sfumature gospel ideato dal songwriter americano Trade Martin. Mixato nel disco con finti applausi della folla, probabilmente viene inserito per aggiungere una pennellata di speranza al ritratto di un “album concerto” con un forte significato di riscatto negli intenti: un’opera trasfigurata in una vera benedizione, uno squarcio di sereno in mezzo a nubi oscure per le persone coinvolte e per chi la ascolterà intrappolato in situazioni simili.
Sempre sensibile a questi argomenti, non è un caso che B.B. King già più di cinquant’anni fa avesse portato il suo show all’interno di quei luoghi (celebre il Live in Cook County Jail,1971), e avviato la Foundation for the Advancement of Inmate Rehabilitation and Recreation, organizzazione nata per ottenere condizioni carcerarie più eque per i detenuti. Sovente, durante la sua lunga carriera si è esibito e prodigato per loro, come accaduto ad esempio nel 1981, con una struggente performance a favore di ben 3000 reclusi nella più grande prigione statale murata del mondo, nel Michigan.
"La gente mi prende spesso in giro perché vado nei carceri a suonare il mio genere di musica. Ebbene, non sono mai stato nei guai io stesso, ma penso che mi sarebbe potuto capitare. Magari, nel caso, la mia salvezza avrebbe potuto essere un artista calato in quella terribile realtà, a consolare gli animi e lenire gli affanni tramite il linguaggio universale del blues”.
Un uomo dal cuore d’oro, sempre attento a eventi di carità e beneficenza come il Farm Aid di Neil Young, Willie Nelson e John Mellencamp, o il Crossroads di Eric Clapton. Una generosità e umiltà infinite, che tratteggiano la figura di un gigante della musica indimenticabile: sono passati già otto anni dalla sua dipartita, ma il suo esempio e la sua dignità non si scorderanno mai.