Un concerto che aspettavo da un decina d’anni.
Il loro primo disco, omonimo, mi aveva sconvolto ed è tutt’ora una delle mie influenze artistiche più forti per i suoni, per la produzione e per la fusione di mondi melodici e ritmici all’apparenza curiosi da fondere.
Chi li conosce bene come me starà cominciando ad odiare questa cosa del supergruppo, quando sono semplicemente assemblati in maniera perfetta.
Damon Albarn (devo davvero spiegarvi chi sia?) con la sua scrittura un po’ cupa ma tutto sommato tranquillizzante, col suo timbro riconoscibile ovunque, a prescindere da cosa ci sia intorno, se una base più tendente all’hip pop dei Gorillaz, al brit pop di Coxon e compagni, o alla musica del futuro che porta il suo nome, tanto scanzonata quanto profonda e piena di venatura di storie e di vite da raccontare.
Simon Tong, chitarrista, attivo con i Verve, collaboratore dello stesso Albarn e dei Gorillaz e presente anche nell’album “Apriti sesamo” di Franco Battiato; è un chitarrista fine, preziosissimo, bravissimo a dare il necessario alle canzoni ed al suono.
Tony Allen, 78enne batterista nigeriano, inventore dell’afro beat, ex collaboratore di Fela Kuti, un uomo che ti farebbe ballare anche da seduto.
Paul Simonon, bassista dei Clash, l’uomo senza cinghia e del basso suonato col pollice (ed in questo da bassista ne condivido da anni il beneficio timbrico), il quale non poteva che sposare alla grande il suo stile tra il dub ed il reggae con un batterista del genere.
Quest’anno si sono presentati a dodici anni dal primo disco con un nuovo album, Merrie Land, attesissimo dai fan, dopo che ci avevano lasciato per più di dieci anni con le dodici canzoni del debut, prodotto da Danger Mouse. Quest’ultimo invece, prodotto da Tony Visconti, ex spalla di Bowie, si è presentato molto più pulito nella forma, molto meno debordante e fuori controllo, tendenzialmente più educato e british, pur mantenendo il filo di fusione Inghilterra-Nigeria-Giamaica. Mi è servito il concerto per comprenderlo fino in fondo, ho dovuto vederli nel viso, ho dovuto sentire scorrere i brani uno dopo l’altro ed unirsi a quelli del precedente per capirne la grandezza.
Quindi alle 21:30 del 20/07/2019 siamo a Lucca e lo spegnimento delle luci in contemporanea alla partenza di una base in sottofondo non fa che valorizzare l’ambientazione tra il salotto e l’Inghilterra di fine ottocento, grazie ad un paio di basse lampade ai lati del palco e lo sfondo color seppia, scuro ed accogliente, preso dalla grafica del primo album. I quattro salgono e sono completati da due musicisti di supporto (percussionista e tastierista) oltre che da un quartetto d’archi.
“Merrie Land”, singolo dell’ultimo disco comincia il live set e sono talmente curioso di sentire come usciranno i suoni da quell’impianto che un brivido mi trapassa, mentre con gli occhi osservo quel mito di sempre, Damon, a una decina di metri da me.
I suoni sono ben messi da subito, il basso tondo come deve, Simonon un ossesso con i suoi movimenti improvvisi e talvolta esagerati rispetto alla musica che ha intorno, Damon che sembra un direttore d’orchestra con la dote del canto, Tony Allen e il suo fido percussionista sono un’unica cosa, nella calibrazione perfetta di suoni, di tocchi e di movimenti ridotti al minimo. L’appalto ritmico è magnifico. Simon Tong è come me lo aspettavo, silenzioso, in disparte, ma fondamentale nella sua calibrata dose di brillantezza.
Il tastierista ed i quattro archi sono fondamentali alle dinamiche del pezzo, ai riempimenti ed agli svuotamenti.
Devo essere sincero, sto aspettando già un brano del primo disco, che conosco benissimo, ma quando parte la successiva “Gun to the Head”, seconda nell’ordine anche del disco, capisco che forse potrebbero fare tutto il disco in successione. In fondo presentano Merrie Land, perché confondere le acque con un disco di dodici anni prima, con un sapore diverso?
E pare andare proprio così. Il concerto prosegue seguendo la tracklist dell’album, eccetto Drifted & Drawlers che non viene eseguita. E più che va avanti la scaletta più che mi sento bene in quel posto, in quelle frequenze, nella maniera che hanno di stare sul palco, di incalzare sui ritornelli più forti, nell’aspettare la reiterata terzina di quarti che caratterizza gli scambi di Tony Allen, e che lancia quell’appoggio successivo regalandogli un’attesa, un ritardo del colpo che diventa un gioca per chi si muove, balla e prova a cascarci a tempo.
Damon sembra stare benissimo, si muove da una parte all’altra del palco e regala sorrisi, ammiccamenti alle prime file di una platea in realtà non proprio piena, ma che ben si addice alla dimensione da salotto del palco stesso. E tutti i movimenti di Damon diventano un incubo per gli inservienti sul palco, che dovranno essere abili a seguirlo ovunque senza far troppo parte dello spettacolo ed evitare intrecci dei cavi, aste che cadano, cavi che si tirino a mezza altezza. E ci sono riusciti, anche con un breve siparietto tra uno di loro e Albarn che appoggia la mano su una spalla e finisce di recitare una parte molto teatrale guardando dritto negli occhi proprio lui.
I sorrisi non mancano sul palco, le canzoni scorrono fluide, il disco mi piace, le riconosco quel tanto che basta per canticchiarle senza sapere le parole di tutto ma potendo partecipare ai tanti momenti corali a cui Damon ci invita. C’è una bella atmosfera, non riesco a staccare gli occhi da Tony Allen, dai pochi tocchi che ci concede alla batteria ed alla quantità di movimento che produce nell’ascoltatore. Faccio caso ad un paio di aspetti tecnici come il charleston che non suona mai insieme al rullante ed alla fatica che sembra faccia nel tenere tutti quanti così indietro sul tempo, pare che le canzoni stiano per esplodere per andare finalmente alla loro naturale velocità raddoppiata…
Non ricordo una sensazione di insieme così ben calibrata e percepita a pelle. Davvero, non ricordo un effetto così personale e positivo dato da delle frequenze e da delle presenze sul palco.
C’è tempo per fare gli auguri e cantare “Happy Birthday” a Tony Allen, per i suoi 78 anni, nonostante secondo Google la sua data di nascita sia il 12 agosto.
C’è anche il tempo di capire lo scopo profondo di un’operazione come questa, quello politico, confermato da Albarn e Simonon in un’intervista il pomeriggio stesso con il loro smarrimento di fronte alla Brexit, ad una Gran Bretagna autoesclusa dalla vita politica europea, con una mossa dove la democrazia a lor vedere è diventata un’arma contro la popolazione stessa e soprattutto dove un’Europa è stata additata come la causa di problemi interni del Regno Unito, servita soltanto come capro espiatorio per una situazione politica critica. A questo sono dovuti i tanti slanci di parole e di slogan fatti da Albarn durante il concerto. A questo è dovuta la sua partecipazione, a questo è dovuta l’attualità del secondo disco dei The Good, The Bad & The Queen.
Guardo spesso l’orologio ai concerti, tengo d’occhio la durata e ricordo che sono le 22:20 quando penso che quello sarebbe stato l’ultimo pezzo di Merrie Land. Ed ora? Escono dopo 50 minuti per rientrare e fare qualche bis del primo? Nein.
Cambio chitarra e parte l’arpeggio di “History Song” in un piccolo boato di riconoscimento.
Damon sta cantando benissimo, tutto il concerto. E il live fila anche con i pezzi del primo.
Segue “80’s Life”, la sospesa “Buntin Song”, la bellissima e corale “Nature Springs”, fino a quella che aspettavo, la prediletta “Herculean”, con quel ritmo scostante ma piantato in terra e quella coda emozionante che non vorresti finisse mai. Arriva “A Soldier’s Tale” con la sua acustica intrecciata agli archi e a quel fischio appena intuibile ma fondamentale per chiudere il cerchio su quel momento melodico.
Tocca alla balcanica “Three Changes”, introdotta da una genuflessione di Albarn, chiudere il concerto.
La pausa è breve, il quartetto resta sul palco a suonare il perfetto inframezzo strumentale.
“Kingdom of Doom” e “Green Fields” riaprono il set tenendoci ormai stretti al primo disco, con Tony Allen che tarda a rientrare con gli altri sul palco creando una buffa attesa senza batteria da parte degli altri ma con la canzone già cominciata dalla chitarra di Tong.
La chiusura poteva essere solo sua, di “The Good The Bad & The Queen”, con quel velocizzando finale perfetto per i live più che per lo studio, incalzato da “Faster Tony!” lanciato da Albarn, in quel momento al piano, al proprio batterista.
Il concerto è finito. Io non sono ancora in grado di mettere un fiocco e definire esattamente ciò che abbia visto. Sta di certo che non ricordo una sensazione così gradevole, di suoni, di pubblico, di colori.
Spesso durante il concerto ho pensato di star vedendo uno dei concerti più belli di sempre.
Tra qualche anno vi dico.
God bless the United Kingdom.
SETLIST
Intro
Merrie Land
Gun to the Head
Nineteen Seventeen
The Great Fire
Lady Boston
The Truce of Twilight
Ribbons
The Last Man to Leave
The Poison Tree
History Song
80's Life
The Bunting Song
Nature Springs
Herculean
A Soldier's Tale
Three Changes
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Kingdom of Doom
Green Fields
The Good, The Bad & The Queen