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REVIEWSLE RECENSIONI
12/03/2021
Julien Baker
Little Oblivions
È una possibile chiave d’accesso al disco, questa continua oscillazione tra il sentirsi inadeguati e il desiderio di essere perdonati, che si concretizza in una serie di testi probabilmente meno crudi che agli esordi ma senza dubbio più lucidamente meditati, più maturi dal punto di vista della consapevolezza di sé.

Sembra passato un secolo ma non sono neanche sei anni che venivamo affascinati dalle canzoni strazianti di “Sprained Ankle”, testi intrisi di morte e sofferenza, produzione minimale e voce potente che a malapena sembrava potesse essere contenuta in un corpo così fragile.

Oggi Julien Baker non è più una timida esordiente ma una delle più importanti artiste all’interno del panorama un tempo noto come “alternativo”. Notissima in America, lo è da un po’ di tempo anche in Europa, dove ha girato i festival più importanti e dove ha radunato una comunità di fan devoti ed entusiasti (chi c’era alla data milanese dell’ultimo tour ricorderà benissimo un Ohibò stracolmo di gente che cantava tutto parola per parola). L’autorevolezza che ormai incarna è testimoniata anche dalle numerose collaborazioni inanellate in questi pochi anni, dai Touché Amoré, ai Big Red Machine, fino al progetto boygenius, messo in piedi assieme alle amiche Lucy Dacus e Phoebe Bridgers, un Ep che da solo ha contribuito molto a riportare in auge un certo modello di Alt Folk tutto al femminile.

Il terzo disco è quello della maturità o almeno così dicono ma diciamo che forse questo valeva per quando il mercato era configurato in maniera differente: oggi che tutto si è compresso fino all’inverosimile, arrivare ad un simile traguardo in possesso di freschezza e ispirazione è già di per sé motivo di festeggiamenti.

Il 2019 è stato un anno difficile per Julien Baker. Ha ricominciato a bere dopo sei anni di sobrietà e ha raccontato che ad un certo punto si è trovata a dover interrompere il tour estivo, tornandosene a casa sua, in Tennessee. Sono stati quelli che viaggiavano con lei, band e crew, ad accorgersi che le cose non andavano e a spingerla a prendersi una pausa. È stata dura, ha confessato, ma oggi dice di essere contenta di aver dato loro ascolto. Il periodo lontano dai palchi lo ha passato al College, dove ha finalmente terminato l’ultimo semestre, laureandosi in inglese e in tecnologia del suono. A 25 anni, con il progetto, prima o poi, di diventare insegnante, si tratta in effetti di un bel modo per ripartire.

“Questo disco è stato un ritornare al posto dove la musica rappresenta il vessillo che contiene i miei pensieri così dolorosi, scomodi e spaventosi”. A dispetto di un certo leggero cambio nella direzione sonora, siamo più o meno sempre dalle stesse parti, quindi. Cantare con disarmante sincerità delle proprie angosce e fragilità porta inevitabilmente ad avere a che fare con fan sempre più appassionati, che chiedono di sapere ogni cosa della propria beniamina; nel momento in cui ha scoperto che alcuni si sono messi a setacciare i testi dell’ultimo album di Phoebe Bridgers allo scopo di recuperare chissà quale riferimento nascosto (le due sono molto amiche e la Baker ha fatto una breve apparizione su “Punisher”), ha compreso che la domanda su cosa voglia realmente dire essere trasparenti e su che prezzo si sia disposti a pagare per volerlo essere, non sono questioni che possano essere facilmente eluse.

Proprio per questo, ha smesso di scrivere le proprie canzoni avendo in mente la risposta del pubblico. E si accorta che, paradossalmente, questo l’ha resa più libera nell’affrontare gli argomenti più personali.

“Alcolismo, cuore spezzato, rivalutazione del proprio ego… queste sono le cose con cui la gente ha a che fare ogni giorno e contro cui combatte per tutta la vita”. “Little Oblivions”, a guardarlo bene, è questa roba qui: c’è lei che affonda, ricaduta in una spirale di abuso di sostanze e di sensi di colpa, mentre cerca di capire se le persone che ha attorno possano o meno salvarla. E passa attraverso una continua demolizione e ricostruzione dell’immagine che gli altri hanno di lei e di quella che lei offre di se stessa.

“I’ve got no business praying, I’m finished being good/Now I can finally be okay in not the way I thought I should” canta in “Relative Fiction” ma ci sono momenti in cui sembra cedere ad una più cupa disperazione, come nei versi da pelle d’oca di “Ringside”:“I’m holding on just like a scratch off ticket how I/dig my nails into your skin/Honey I’m not stupid, I know no one wins this kind of thing./It’s just another way to kill an hour, wishing I were different/Nobody deserves a second chance, but honey I keep getting them”.

Perché la tentazione, come canta nella conclusiva “Ziptie”, è quella di voler cambiare forzatamente la realtà, pretendere che certe cose non esistano (“Good God, when’re you gonna call it off, climb down off the cross and change your mind?”) mentre è questa battaglia difficilissima per l’accettazione, quella che bisognerebbe riuscire a combattere.

È una possibile chiave d’accesso al disco, questa continua oscillazione tra il sentirsi inadeguati e il desiderio di essere perdonati, che si concretizza in una serie di testi probabilmente meno crudi che agli esordi ma senza dubbio più lucidamente meditati, più maturi dal punto di vista della consapevolezza di sé.

È un cambiamento che è andato in parte ad incidere sulla costruzione musicale di questo lavoro: a “Little Oblivions” Julien ha lavorato assieme a due nomi importanti come Calvin Lauber e Craig Silver e il risultato finale dice di un disco nel complesso più prodotto, che gioca la carta di un Indie Folk canonico e più pieno a livello strumentale: batteria (anche elettronica) e tastiere a dare maggior corpo al suono, una presenza meno sporadica delle chitarre elettriche e qualche comparsata di banjo e mandolino, con lei stessa che si è occupata di quasi tutti gli strumenti.

La scrittura è sempre quella, meno sconvolgente del solito, sia per un fisiologico attenuarsi dell’effetto sorpresa, sia perché c’è stata evidentemente una scelta precisa di razionalizzare le proprie inquietudini, comunicare incertezza e dolore senza per questo gridarlo fino a lacerarsi i polmoni. Se i primi due dischi (il primo soprattutto) colpivano per questo aspetto di disarmata spontaneità, la ricerca e la meditazione maggiore che ha portato a queste canzoni ne ha un po’ smorzato l’impeto primigenio. Ci sono bei momenti, perché la sua voce sa sempre toccare le corde giuste dell’emozione e certe linee vocali fanno sussultare il cuore; allo stesso tempo, il tutto è meno appariscente del solito, in più di un brano l’effetto déjà vu risulta inevitabile e dopo i primi ascolti si ha come l’impressione di un viaggio dove si vedono bei panorami ma non si ha nessuna idea chiara di quale sia la meta.

Tra episodi più ricchi di elementi (“Hardline”, “Faith Healer”, “Ringside”, che è una delle più ritmate e anche una delle meglio riuscite) ed altri più spogli e vicini alla semplicità delle origini (“Heatwave”, acustica e vicina ad un certo Folk americano, le pianistiche “Crying Wolf” e “Song in E”) “Little Oblivions” regala soddisfazioni ma non rappresenta quella crescita esponenziale che ci saremmo aspettati da una come lei. Che sia un passo falso o l’esaurimento della vena creativa, lo potremo capire solo tra un altro paio di album. Speriamo solo di non doverci trovare a chiedere, quando qualcuno farà il nome di Julien Baker tra qualche anno: “Eh sì, i primi due dischi erano proprio bellissimi, che fine ha fatto adesso?”.

Lei comunque non sembra ricattata dall’esito: “Penso che dovrei semplicemente rivedere le mie priorità. Se non avrò più successo nella mia carriera di musicista, non smetterò certo di fare musica. Dovessi andare fuori strada e tutto dovesse cadere a pezzi attorno a me, sarei ancora qui a fare musica”.


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