“I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate. Per questo voglio bene a tutti allo stesso modo e tutti allo stesso modo mi spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato”.
Milan Kundera è nato a Brno il 1° aprile 1929, quando l’attuale Repubblica Ceca si chiamava ancora Cecoslovacchia. È uno dei più importanti scrittori contemporanei viventi, ma non solo, è anche poeta, saggista e drammaturgo. Suo padre era un uomo influente, rettore dell’accademia musicale di Brno. È da lui che ha ereditato il suo grandissimo amore per la musica classica, in particolare per il compositore Leoš Janá?ek.
L’occupazione sovietica della Cecoslovacchia segnò l’inizio della distruzione della cultura ceca e lo stravolgimento della vita dell’intera popolazione, soprattutto di coloro che, come Kundera, si opponevano al regime. Iscritto al Partito Comunista, nel 1968 si schierò apertamente a favore della “Primavera di Praga”. Viste le sue idee, venne espulso dall’università dove insegnava e anche dal Partito, nonostante, fino a poco tempo prima, ne fosse stato un punto di riferimento importantissimo. Gradualmente venne privato di tutto: lavoro, assistenza, salario, passaporto. Viveva nel vuoto più totale, eppure, non ha mai smesso di scrivere e di manifestare il suo libero pensiero su quanto stava accadendo alla sua amata nazione. Nel 1971 scrisse, sotto pseudonimo, la pièce teatrale Jacques e il suo padrone. Omaggio a Denis Diderot in tre atti e, nel 1972, Il Valzer degli addii, che da molti fu visto come il suo romanzo di commiato ai lettori. Nel 1975, seppur a malincuore, si trasferì in Francia con sua moglie Vera. Nel 1979, dopo la pubblicazione de Il libro del riso e dell’oblio, gli venne tolta la cittadinanza cecoslovacca. Kundera ne fu profondamente ferito e amareggiato: “I russi hanno privato un ceco della sua cittadinanza”. Nel 1981, con Mitterrand presidente, ottenne quella francese.
Un uomo estremamente brillante, intelligente e affascinante. Ironico e schivo, al punto che nessuno, o quasi, è mai riuscito a intervistarlo, fatta eccezione per una radio di Brno. Kundera non ha mai amato parlare di sé, e pur vivendo una vita piena, è sempre stato molto geloso della sua privacy. Ha sempre desiderato “scomparire” nelle sue opere, che, a suo dire, contengono tutto ciò che di lui e sul suo pensiero c’è da sapere. Anzi, nel suo mondo ideale, gli scrittori dovrebbero essere costretti a scrivere mantenendo segreta la propria identità e a usare uno pseudonimo, perché in questo modo si assisterebbe a una radicale riduzione della grafomania, dell’aggressività letteraria e, soprattutto, sarebbe impossibile interpretare biograficamente le opere letterarie, perché l’attenzione del lettore rimarrebbe focalizzata esclusivamente sull’opera, e, probabilmente, la lettura risulterebbe più “pura”, vale a dire non contaminata da inutili contestualizzazioni o divagazioni di carattere personale sull’autore e sulla sua vita. “Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.”
Kundera è anche estremamente perfezionista. Ha “ripulito” tutta la sua opera. Ha tenuto l’essenziale, ciò che gli piaceva davvero, e ha fatto sparire, nelle edizioni successive, racconti o poesie che non sentiva più all’altezza della sua produzione letteraria. Ma non solo, per oltre due anni ha smesso di scrivere per dedicarsi completamente alla ritraduzione di tutti i suoi lavori dalla lingua ceca a quella francese. Questo perché si era reso conto che le traduzioni fatte fino a quel momento erano imprecise, soprattutto nella scelta dei vocaboli che finivano con l’alterare il senso del suo pensiero, e anche la profondità dei contenuti. Kundera, d’altro canto, ama le parole, le sceglie sempre in modo meticoloso, perché è consapevole del loro peso.
Così, a un certo punto, ha abbandonato il ceco e ha cominciato a scrivere in lingua francese, tant’è che oggi è considerato a tutti gli effetti uno scrittore francese, nonostante i suoi natali e nonostante abbia scritto buona parte delle sue opere in ceco. I suoi libri sono entrati di diritto a far parte della letteratura francese e, ancora in vita, ha avuto l’onore di vedere i suoi romanzi pubblicati in due volumi nella serie Pléiade. Il nome di Kundera compare accanto a quello di scrittori del calibro di Proust, Balzac, Goethe e Conrad.
Kundera non si è mai dimenticato delle sue origini e nemmeno della “questione Ceca”. In “Un occidente prigioniero” (saggio che contiene la trascrizione di due interventi di Kundera, uno del 1967 e uno del 1983) accusava l’Europa di aver rinnegato la propria identità nel momento in cui aveva consentito alla Russia di strappare una parte d’Europa al proprio destino Europeo, e di averla svenduta da un lato agli Stati Uniti e dall’altro all’Unione sovietica.
E anche ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, il libro che ha consacrato la sua fama a livello mondiale, la “questione Ceca” ritorna con prepotenza, anzi, è proprio il contesto politico in cui si muovono i protagonisti, che finirà con il condizionarne le scelte e, di conseguenze, le vite. È proprio quel contesto politico così difficile ed “estremo” che ha consentito a Kundera di tratteggiare i suoi personaggi e di esplorarne la coscienza in profondità, perché è nei momenti più critici che l’animo umano si manifesta in tutta la sua natura, prende vita e si colora. Un libro straordinario, al punto che lo stesso Kundera temeva che in seguito non sarebbe più stato in grado di scrivere nulla di così potente e sofisticato. Ma i fatti, o meglio, le sue opere successive, lo hanno smentito.
Kundera, con il suo pensiero critico, ha dimostrato di essere un attento osservatore dell’agire umano, della realtà, del presente e dell’evoluzione dei tempi “moderni”. In più occasioni ha manifestato tutto il suo scetticismo rispetto a questo mondo che va sempre più veloce, a questa forma di alienazione che ci accompagna e che ci allontana sempre più da quella che dovrebbe essere una dimensione umana, fatta anche di lentezza, introspezione e riflessione. Critica aspramente quest’epoca in cui si tende a eccellere nell’ignoranza e in cui sembra non esserci più spazio per porsi delle domande esistenziali. Quelle stesse domande esistenziali che lui, invece, continua a porsi e a porre ai suoi lettori, senza sosta. Quelle stesse domande che rendono i suoi romanzi mutevoli, perché a ogni lettura si rinnovano, così come si rinnovano le nostre riflessioni e le nostre risposte ai quesiti che ci vengono posti.
Io stessa posso testimoniare che i suoi libri danno la sensazione di essere in continuo movimento e di risuonare diversi a ogni lettura. Sono passati moltissimi anni da quando ho letto per la prima volta L’insostenibile leggerezza dell’essere. Ai tempi ero ancora un’adolescente. Una sognatrice incallita, innamorata dell’amore puro, eterno ed esclusivo. L’unico tipo di amore che riuscivo a concepire. Ecco perché avevo trovato particolarmente disturbante questo romanzo in cui tutto appare relativo e l’amore viene separato dal sentimentalismo. Non avevo colto che, paradossalmente, è proprio questa separazione a rendere il vero amore immortale, a renderlo più forte della morte. Perché l’amore vero sopravvive anche alla morte. L’amore inteso come valore assoluto, come sentimento svincolato da tutti i cliché cui siamo soliti legarlo.
Rileggendo questo romanzo oggi, con il disincanto e la consapevolezza tipiche dell’età adulta, con tutti gli approfondimenti del caso e con il bagaglio di conoscenze ed esperienze che, volente o nolente, mi porto dietro come un fardello, ho potuto constatare che a 17 anni, o giù di lì, non possedevo gli strumenti necessari per comprendere fino in fondo la portata eccezionale di questo romanzo. Esattamente come lo stolto, avevo guardato il dito anziché la luna.
Ero rimasta in superficie e avevo focalizzato la mia attenzione su tutto ciò che mi turbava, anziché guardare oltre. Perché questo romanzo non è semplicemente un libro che parla d’amore. È un libro che parla anche d’amore, e non solo di quello tra esseri umani, ma dell’amore in senso lato. Perché l’amore e la passione occupano ogni spazio all’interno delle nostre vite. L’amore, più di qualsiasi altro sentimento, ci spinge a superare i nostri limiti e a lottare per tutto ciò in cui crediamo e a rimanere fedeli a quelli che sono i nostri ideali, anche se questo significa, in alcuni casi, dover sacrificare qualcosa.
Attraverso il racconto delle vite dei protagonisti, che appaiono quasi un pretesto narrativo, Kundera ci pone dinnanzi a riflessioni profonde sul senso della vita, dell’amore, dei rapporti umani, degli ideali, delle passioni e di tutto ciò che riempie le nostre esistenze. Ci mostra che la realtà ha molteplici chiavi di lettura e che ogni essere umano possiede le sue peculiarità, interiori ed esteriori. L’autore, in un certo senso, ricerca la verità.
Quella verità che va oltre le apparenze, oltre al Kitsch (concetto molto ricorrente in Kundera, che oggi potremmo associare, per semplificare, al tanto in voga politically correct o, ancora, all’omologazione, al pensiero unico, quello che non ammette che vengano poste domande o che sorgano dubbi, alla “forma” condivisa dai più). Kundera ricerca la verità esteticamente imperfetta, quella che dà fastidio e che si vorrebbe nascondere, perché considerata deplorevole.
“…tutto ciò che turba il Kitsch è bandito dalla vita; ogni espressione di individualismo (perché ogni discordanza è uno sputo in faccia alla fratellanza sorridente), ogni dubbio (perché chi comincia a dubitare di una piccolezza finirà per dubitare della vita in quanto tale), ogni ironia (perché nel regno del Kitsch ogni cosa deve essere presa con assoluta serietà), e inoltre la madre che ha abbandonato la famiglia o l’uomo che preferisce gli uomini alle donne, minacciando in tal modo il precetto divino: «crescete e moltiplicatevi»”.
Riassumere la trama di questo romanzo appare quasi banale, perché pur ruotando attorno alle vite dei suoi protagonisti, Tomáš (un chirurgo stimatissimo), Tereza (una fotografa) e Karenin (l’amato cane) da una parte, e Franz (un professore universitario) e Sabina (una pittrice) dall’altra, affronta così tante tematiche e incastra tra loro così tanti eventi, quelli di una vita intera, con digressioni temporali e balzi in avanti, che sarebbe davvero riduttivo scegliere di concentrarsi su qualcosa in particolare.
Vi dirò solo che Tomáš e Tereza si amano molto; che per Tomáš il suo lavoro è tutto e che pur amando profondamente Tereza, non riesce a fare a meno di tradirla, nonostante il senso di colpa e nonostante sia consapevole di provocarle una grandissima sofferenza. Tomáš “Non è ossessionato dalle donne, ma da quello che in ciascuna di esse c’è di inimmaginabile, in altre parole è ossessionato da quel milionesimo di diversità che distingue una donna dalle altre donne […] Solo nella sessualità il milionesimo di diversità si presenta come qualcosa di prezioso perché è inaccessibile pubblicamente e bisogna conquistarlo.”
Sabina, invece, è una delle tante amanti di Tomáš, e Franz è uno degli amanti di Sabina. Anche Sabina e Franz, a modo loro, si amano, a dispetto della loro sostanziale diversità. Per Sabina l’amore fisico è impensabile senza violenza, mentre per Franz “l’amore significa rinunciare alla forza.”
Il resto lo scoprirete da soli, se deciderete di avventurarvi nella lettura di questo libro straordinario e complesso, che richiede attenzione, apertura, lentezza e, in alcuni casi, anche approfondimenti storici. È necessario fermarsi per metabolizzare e abbandonarsi a tutte le riflessioni del caso. È un libro mutevole, che apre a moltissime interpretazioni. I personaggi non sembrano mai fermi, danzano e lottano senza sosta all’interno delle proprie vite.
Gli ideali, le fragilità, i fraintendimenti, la difficoltà di dover scegliere, andare per poi ritornare, perdere per poi ritrovare… Seguire il proprio cuore, ma essere anche pronti a metterlo da parte, se necessario. Perché oltre al cuore, fortunatamente, esiste la ragione che può salvarci e guidarci verso decisioni più ponderate, che non siano solo il frutto della nostra emotività.
E poi, ancora, cos’è leggero? Cos’è pesante? Cos’è l’anima? Dov’è? La vertigine, la paura, la forza del cambiamento e le nuove consapevolezze che affiorano, come quelle di Tomáš che, strappato alla sua professione di chirurgo, si ritrova a fare il lavavetri, lavoro di cui non gli importa assolutamente nulla, ma che, allo stesso tempo, gli fa provare piacere. Perché può finalmente comprendere “la felicità delle persone (per le quali fino a quel momento aveva sempre provato pietà) che svolgevano una professione a cui non erano spinte da nessun «Es muss sein!» interiore e che esse potevano dimenticare non appena smesso il lavoro. Mai prima di allora aveva conosciuto una simile beata indifferenza. Quando al tavolo operatorio qualcosa non andava come lui voleva, si disperava e non riusciva a dormire”; e anche quelle di Tereza, che ha imparato a sue spese che le avventure amorose non hanno nulla a che fare con l’amore. Che sono leggere e non pesano nulla. Però, hanno il potere di far riacquistare la vista all’anima.
Lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, spogliarsi delle proprie infrastrutture e scoprire che possiamo essere molte più cose di quel che crediamo e che la felicità, spesso, si nasconde proprio lì dove non pensavamo di poterla trovare, lontano da quella che pensavamo fosse la nostra strada… “Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una missione.”
Perché “l’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza persino nei momenti di più profondo smarrimento".