È la notte tra il 24 e il 25 luglio 1938 e sta per cominciare la battaglia dell’Ebro, la più sanguinosa mai combattuta in terra spagnola. L’XI Brigata Mista dell’esercito repubblicano attraversa il fiume per stabilire una testa di ponte a Castellets del Segre; nei pressi del paese, mezzo battaglione di fanteria, un tabor marocchino e una compagnia della Legione Straniera difendono la zona. Sono uomini e donne, in larga parte giovanissimi, che per fare i soldati hanno messo in pausa la vita. Come Patricia Monzón, addetta al reparto trasmissioni, che tra una spola e l’altra per sistemare telefoni incontra una carezza d’amore; come Ginés Gorguel, falegname di Albacete, che si rolla una sigaretta e intanto medita di passare al nemico; come il sottotenente Santiago Pardeiro Tojo, vent’anni appena, ex studente di Ingegneria Navale, che prima della sparatoria fa l’occhiolino ai suoi uomini per mascherare la paura. Combinando magistralmente finzione e dati storici, Arturo Pérez-Reverte ci porta tra i valorosi che affrontarono quei giorni: un unico, ininterrotto movimento di camera tra i due fronti che di volta in volta inquadra smarrimenti e sorrisi, obbedienze e ostinazioni ideologiche, l’odore immobile della morte e addirittura il miracolo di una vita che viene al mondo.
La battaglia dell’Ebro è il momento decisivo della guerra civile spagnola, dieci terribili e sanguinosi giorni in cui l’esercito di Franco sopraffà quello repubblicano, ponendo fine di fatto alle ostilità, che continueranno fino ad aprile dell’anno successivo, a destini già decisi. Da un lato, l’esercito spagnolo (male addestrato e composto in parte da adolescenti) e le Brigate Internazionali, una compagine, questa, invisa allo stalinismo, e sciolta poco dopo quella terribile battaglia; dall’altro, le truppe franchiste, il Bando Nacional, la Falange e i Requetes carlisti, bene equipaggiati, più motivati e militarmente più strutturati.
Arturo Perez – Revert, nato a Cartagena nel 1951, romanziere con un passato di inviato di guerra (Cipro, Falkland, Golfo e Croazia), non si limita a raccontare, romanzandolo, quel cruciale evento storico, ma porta il lettore sul campo di battaglia, dentro le trincee, sulla linea del fuoco, in un dinamismo brutale che non risparmia nessuna atrocità. Chi legge è, infatti, catapultato nell’inferno della guerra, combatte fianco a fianco con una gioventù il cui destino, spesso, molto spesso, è inesorabilmente segnato, guarda, con occhi sempre più smarriti, il sangue che scorre, respira l’odore della polvere da sparo, della morte e della putrefazione, e sente, soprattutto, grazie al continuo uso dell’onomatopea, il terrorizzante sibilo delle pallottole, il fragore delle granate, il crepitare delle mitragliatrici.
E’ un urlo di dolore ininterrotto, una Guernica in lettere, quella che mette in scena Perez-Revert, il quale, con la sua prosa ricca, classica, quasi cinematografica, racconta, tessendo con abilità una trama densa di colpi di scena, mentre con il suo sguardo obbiettivo e cinico da corrispondente di guerra rappresenta, esponendola nella sua dura realtà, la crudeltà, l’efferatezza, il furore e la follia di una guerra tra fratelli, spogliandola di ogni habitus romantico e ideologico (“E’ il brutto di queste guerre. Che senti il nemico chiamare la madre nella tua stessa lingua”).
L’originalità del romanzo, il suo plus emotivo, consiste nel fatto che il romanziere spagnolo non sta su una sola barricata, ma si muove da una parte all’altra della stessa, infilandosi alternativamente la divisa del franchista e del repubblicano, cercando di comprenderne le rispettive ragioni, senza giudicare, senza alcun didascalismo morale. Figli della stessa nazione, al di là della posizione politica (in molti, veramente sfumata, se non inesistente) fascisti e comunisti possiedono la stessa anima, lo stesso sangue, la stessa paura, lo stesso odore, hanno tutti famiglie, fidanzate e amici a cui tornare, sogni e desideri, e speranze di vita, che la morte cancellerà con un colpo di mortaio, o una pallottola vagante. Non solo militari, ma essere umani tout court, capaci di atrocità, certo, ma anche di indicibili atti di coraggio e toccanti atti di umanità.
Così, tra il clangore delle baionette, sotto il frastuono delle bombe, nel chiasso assordante delle bestemmie, delle urla di dolore, degli slogan reiterati come un mantra (“Arriba Espana!”, che il sottotenente Pardeiro urla un’ultima volta, con voice roca, dopo averlo gridato per dieci giorni di fila), tutto è possibile: una vita che viene alla luce, una tregua inaspettata, un amore senza speranza che nasce fra le trincee, e due vite risparmiate, in un toccante e illuminante finale.
Quando Perez- Revert si schiera, lo fa solo, e questa volta, si, apertamente, contro il fanatismo ideologico e l’insensatezza della guerra. Ecco, allora, emergere, nel convulso succedersi degli avvenimenti, due anime agli antipodi ma accomunate dal dubbio, il capitano Bascunana, malinconico ufficiale repubblicano, che crede nella democrazia, ma non negli insulsi dictat di chi lo comanda, e il codardo Gines Gorguel, che cerca una via di fuga dalla battaglia, senza trovarne mai una.
Linea di fuoco, lo dico senza giri di parole, è un capolavoro, uno di quei libri che resteranno nella memoria del lettore per parecchio tempo, dopo aver chiuso l’ultima pagina. Un romanzo in cui è facile cogliere echi da Remarque, da Hemingway (citato spesso, in modo non proprio lusinghiero), da Orwell (Omaggio alla Catalogna) e, perché no, dal grande di cinema di Ken Loach, che ha saputo raccontare con passione questo oscuro periodo della storia di Spagna, nel suo meraviglioso Terra e Libertà. Probabilmente, il romanzo definitivo sull’insensatezza della guerra, le cui conseguenze vengono pagate, sempre e comunque, solo dai poveracci, carne da macello per le logiche di potere e di profitto di quei pochi, che la morte la vedono, solo dalle retrovie, come un male necessario per i loro intrallazzi. Una lettura ancor più indispensabile in questi giorni tristi e drammatici, in cui la guerra non è un capitolo di storia, ma una realtà che non fa sconti.