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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
30/07/2021
Federico Sirianni
L’incollocabilità della sua canzone
Prende a schiaffi e accarezza poi le piaghe e le ferite, il nuovo disco di Federico Sirianni, “Maqroll”, figlio ispirato dalla letteratura di Alvaro Mutis. Lo fa anche attraverso questo libricino che lo custodisce, dove oltre ai testi e alle grafiche ci sono fotografie di mare e di anime, e ci sono liriche di altri scrittori, di poeti, di narratori e di altri eterni incollocabili.

“Il naufragio è sotto gli occhi di tutti, i penultimi affondano la barca degli ultimi per sentirsi terzultimi, si bruciano le coperte dei senza fissa dimora, il teatro con il sipario e gli attori viene svenduto mentre scienziati e politici distruggono la biblioteca di Babele e gli ospedali colano a picco come il Titanic e il Pequod, sommersi dall’ignoranza di chi spaccia per verità la propria opinione” (F. Sirianni).

 

In questo tempo assurdo, desertico, di teatralità, d’orrore e di promesse di un futuro che si sbriciola, anche contro le evidenze della pubblicità in televisione, sono numerosi e innumerabili i dischi di coloro che cantano e decantano il virus e le sue metastasi sociali. Tante sono le carte carbone che hanno lavorato sottobanco in questo tempo assurdo, eppure un disco come “Maqroll” che con il maledetto virus c’entra poco (e anche meno di poco), è forse il vero tassello mancante in questo mare in tempesta, dove tutti cinguettano la soluzione e i suoi complotti, e dove gli stessi tutti si contraddicono con stile e paracaduti filosofici.

Un disco come “Maqroll” parla dell’incollocabilità, parla di quel perenne stato di non stato, dentro cui (re)stare in equilibrio precar(i)o e (in)stabile, dove non si riconosce l’altro perché veste i panni di chi non è secondo i canoni. Scomodo alla pubblica piazza perché non inquadrato, non collocabile dentro le regole comuni, perché visionario di un tutto analizzato da un’angolazione che avevamo perduto di considerare, presi come siamo dalle abitudini omologate. Incollocabile perché poeta di smagliature e di confini piuttosto che narratore della cosa comune. Incollocabile dunque, perché non ha i ritornelli facili e, anzi, poco se ne cura di farne. E il problema in fondo, diciamola tutta, non è di colui che non ha ritornelli facili, ma di colui che non sa più camminare con le proprie gambe se i ritornelli facili glieli levi.  

“Le conchiglie nel deserto sono alla fine tutto quello che ci resta e che può farci ricordare il nostro senso di umanità” (F. Sirianni).

Prende a schiaffi e accarezza poi le piaghe e le ferite, il nuovo disco di Federico Sirianni, “Maqroll”, figlio ispirato dalla letteratura di Alvaro Mutis. Lo fa anche attraverso questo libricino che lo custodisce, dove oltre ai testi e alle grafiche ci sono fotografie di mare e di anime, e ci sono liriche di altri scrittori, di poeti, di narratori e di altri eterni incollocabili. Non starò qui a far la mostra di nomi e di crediti, alzatevi dalle poltrone e cercateli. Non abbiamo bisogno di essere imboccati sempre e così in automatico. Anche se ho paura che ormai gli incollocabili vivano (anzi viviamo) dentro una solitudine che diventa decisamente più grave e più violenta, dentro “vagoni dedicati” a debita distanza dagli omologati, che si sono prontamente adeguati agli stilemi della pubblicità.

Maqroll" è un bellissimo disco dove la canzone d’autore si fa narrazione, dentro cui il suono è lisergico ed elegantemente digitale negli arrangiamenti, grazie alla collaborazione con FiloQ e con Raffaele Rebaudengo degli GnuQuartet. Federico Sirianni ha scritto un disco che è opera e vissuto; somiglia ad una fotografia ma anche ad un disegno fatto a mano. Ci sono i computer certamente, ma sono comunque finimenti artigiani quelli che sento, e non impalcature prestampate del grande commercio. E poi c’è la voce sghemba e viscosa di Federico Sirianni, c’è l’acqua come portatore sano di spiegazioni, c’è l’emancipazione di una virgola e la perfezione di una domanda. C’è un cantautore, figura decisamente incollocabile in questo tempo di commercio di massa e di televisioni totalitarie, dove non abbiamo più i mezzi per capire le cose, quando le cose chiedono tempo e attenzione per esistere ed essere capite. Ed è questo il vero problema del nostro tempo apocalittico, forse è questa la vera epidemia sociale a cui dovremmo far fronte.

Per il resto, “Maqroll” è un disco importante di fronte al quale sedersi e sentire. Se non ce la fate non date la colpa a Federico Sirianni e ai suoi “non ritornelli”. Per una volta almeno, date la colpa alla vostra incapacità di attenzione. Pura utopia, che anche l’utopia è ormai incollocabile.

“Anch’io penso che stiamo imbarcando più acqua del previsto e, come Achab, inseguiamo il mostro, metafora delle nostre più livide ossessioni” (F. Sirianni).

Casualità. Beh direi che voglio partire da qui. Il senso del viaggio, per la stessa ragione del viaggio. La casualità mi viene da percepirla dentro questi brani, che mi sembrano ricchi com’è ricco il raccolto della terra, quando non sai ancora cosa avrà da darti. Ti chini sul campo ed è allora che scopri, ed è così che lo raccogli. Stupore da un lato, certezza e speranza dall’altro. Ho la sensazione che questo disco sia nato così nella sua prima stesura, sbaglio?

Sì, in effetti le canzoni del disco sono il raccolto di una terra coltivata per un buon tempo con cura e anche una certa fatica, una terra che ha dato frutti ancora migliori rispetto alle aspettative. Ci sono casualità, stupore, speranza e, aggiungerei, disperanza, citando Alvaro Mutis.

Parliamo ancora di casualità. Parliamo di covid e delle sue restrizioni, da quanto racconti in esergo a tutto il viaggio, sembra che la casualità torni protagonista anche nella genesi e nella scelta dei suoi tempi. Un raccolto di canzoni che arriva a spezzare un silenzio lirico durato qualche anno, piovuto ora, non ieri e non domani, ora che la società è in balia di un mare in tempesta. Come l’hai vissuta, come l’hai lett, e l’assurdo vuole che, edulcorando il tutto con poesia e orrore, l’ispirazione nasce dal terrore dei pipistrelli, quelli che pensiamo essere portatori sani di Covid-19, che ti hanno costretto in una camera d’albergo dove incontri Alvaro Mutis, Maqroll e le sue avventure. Ecco il sunto dell’incollocabilità.

In realtà l’incontro con Mutis è arrivato (in maniera casuale) prima della pandemia e pure, fortunatamente, quasi tutte le canzoni del disco. Dico “fortunatamente” perché, per quel che mi riguarda, le chiusure e le restrizioni non hanno influito in maniera particolarmente positiva sulla mia creatività, che si è proprio addormentata. L’unico brano che ho scritto nel corso di questi tempi lividi è “Una sorta di naufragio”, in cui cerco di raccontare, in maniera storicistica, come se li leggessi da un futuro distante, gli avvenimenti contemporanei. Credo fosse l’unica modalità possibile di narrativa.

La terra del libero arbitrio è un deserto di conchiglie e di un deserto non si vede mai la fine. Direi che “Una sorta di naufragio” sia il momento più alto del disco, lavoro che penso abbia una fortissima impronta sociale. Cosa ne pensi?

Non so se sia il punto più alto del disco, ma è sicuramente la canzone più “politica”.

Il naufragio è sotto gli occhi di tutti, i penultimi affondano la barca degli ultimi per sentirsi terzultimi, si bruciano le coperte dei senza fissa dimora, il teatro con il sipario e gli attori viene svenduto mentre scienziati e politici distruggono la biblioteca di Babele e gli ospedali colano a picco come il Titanic e il Pequod, sommersi dall’ignoranza di chi spaccia per verità la propria opinione. La frase di Paul Klee “deve essere senz’altro una sorta di naufragio, quando da vecchi ci si arrabbia o ci si indigna ancora per qualcosa” mi sembrava la degna conclusione di questa farsa/tragedia che tutti recitiamo senza quasi rendercene conto.

Restiamo sul deserto che molto si scontra con l’acqua, elemento portante di tutto. E dunque penso all’aridità come mancanza e come punizione. E qui temo che avresti molto da dire sulla condizione umana di oggi: siamo davvero in evoluzione o stiamo regredendo, cioè stiamo raccogliendo solo aridità e secchezza, stiamo prosciugando l’acqua perché resti il deserto e le sue conchiglie?

Negli Scritti corsari Pasolini evidenzia la differenza tra sviluppo e progresso, attribuendo allo sviluppo un significato legato all’immediato interesse economico e al progresso qualcosa di più alto, che tenda al benessere sociale. Fermo restando che oggi sviluppo è progresso, ciò che mi preoccupa e rattrista è, come dici tu, una sensazione di regressione dal punto di vista del “sentire”; la tendenza a una vita che sia socialmente accettata (molto “social” e poco “mente”) ma che non ci appartiene e sia vettore di frustrazione, invidia, rabbia, che ci conduca alla costante ricerca di un nemico da odiare e insultare. Una condizione che porta inevitabilmente all’aridità e alla secchezza del pensiero, alla mancanza di attenzione, alla poca cura, al percepire conoscenza e approfondimento come qualcosa di inutile, superfluo.

Le conchiglie nel deserto sono alla fine tutto quello che ci resta e che può farci ricordare il nostro senso di umanità.

Fermiamoci ancora qui: quando un’opinione diventa storia e un’idiozia verità. Ecco la frase del mio personalissimo disco di Sirianni. A te la palla.

La possibilità che ognuno, non solo possa esprimere e pubblicare la propria opinione, ma abbia il suo personale giardino di follower che lo gratifica, rende questa modalità, secondo me molto pericolosa, normale e quotidiana.

Hanno tutti ragione, citando il romanzo di Sorrentino e chi ha studiato “all’università della vita” ha lo stesso peso di chi invece ha studiato davvero una vita.

Altra citazione: gli uomini non vedono il presente, il futuro lo conoscono gli dei. Altro momento altissimo di questo disco è questa canzone “Il mio amore sospeso”. In questa frase trovo un’altra chiave portante della casualità, dell’incollocabilità, e ci vedo anche la bellissima filosofia buddista del qui ed ora. Che rapporto hai con questo concetto? Che rapporto hai col qui ed ora?

Direi totalizzante. Nonostante non sia buddista, la mia vita è ed è sempre stata qui e ora, non ho mai considerato il futuro come una condizione a cui tendere. C’è un’altra frase che mi accompagna ed è un vecchio detto yiddish: “L’uomo progetta, Dio ride”. Mi piace molto.

Sbaglio se dico che questo brano è forse uno dei pochi momenti in cui la melodia ha decisamente un peso diverso?

È un brano molto melodico, è vero. In realtà le melodie sono molto presenti anche nelle altre canzoni, ci sono tanti temi che ricorrono, ma in questo caso la melodia è sottolineata anche da un cantato meno recitativo e più musicale. Forse è per questo che risalta maggiormente.

Tu lo vedi il presente Federico? E agli dei che stai chiedendo, o come scrive Giorgio Olmoti nella sua meravigliosa introduzione, anche tu sei un’anima che non chiede niente a nessuno?

Noi non chiediamo mai niente a nessuno. Siamo cani sciolti, incollocabili, visionari, con il naufragio sempre davanti agli occhi e la capacità di sopravviverne ogni volta. Gli incollocabili sono scomodi e guardati con sospetto. Ma resistono a tutto.

Ecco. Tiriamo in ballo il libro. “Maqroll” è soprattutto un libretto chiamato a custodire il cd, ma anche i testi, ma anche tante fotografie e soprattutto tante scritture a firma di amici poeti e pensatori, narratori, scrittori ovviamente, incollocabili, ognuno a proprio modo. Sembra che tu abbia voluto raccogliere la loro testimonianza ed io alla fine del tutto ho pensato che, anche se di voci diverse, ognuno ha lo stesso modo di esserlo, incollocabile intendo. Dopo aver letto le loro storie, a te cosa è arrivato?

Esattamente quello che è arrivato a te. Una sorta di “Antologia dell’incollocabilità”, fatta di poesia, racconto, immagine e pure voce, visto che attraverso un QRcode si può ascoltare un’intervista inedita di Martha Canfield ad Alvaro Mutis.

Le tasche della rabbia sono piene di soluzioni scrive Vincenzo Cinaski. Altra anima splendida accesa a dire la sua, eppure dal tuo suono fin dentro le tue liriche, io non ho mai intravisto neanche l’ombra di una rabbia, di una soluzione rancorosa.   

È vero, anche perché l’intero album è pervaso da quella condizione esistenziale che Mutis definisce la “disperanza”, un termine che racchiude un significato e il suo opposto, una sorta di rassegnazione attiva. Chi coltiva la disperanza non è disperato, ma ha fatto modernamente e dolorosamente i conti con le umane illusioni, giungendo così a una forma di superamento del disincanto etica e lontana da ogni cinismo. La “disperanza” è la dolorosa cognizione della finitudine materiale dell’esperienza umana, che consente di non cadere né nella passività o nel nichilismo, ma di godere di gioie effimere e inaspettate.

È importante questo suono nuovo di Federico Sirianni. Parliamo di elettronica, parliamo di FiloQ. Se il disco si apre richiamando “Mille giorni di te e di me” di Baglioni, poi incasella 4 brani in cui lo scenario sembra avere un retrogusto orientale, giapponese, in bilico tra Sakamoto e la via della seta. “Il mio amore sospeso” poi arriva in Islanda e così via, addirittura “La stiva dell’Alciòn” sembra dare una codifica apocalittica ed urbana al circo e ai suoi circensi. Come sono nati questi suoni? Dalla tua chitarra al resto del mondo programmato, chi ha scelto cosa e quanta dolcissima “violenza” hai dovuto accettare contro le forme delle tue abitudini?

Devo dirti che a Baglioni proprio non avevo pensato! Il pensiero invece è stato quello di dare al racconto una colonna sonora che avesse proprio una connotazione filmica, cinematografica e che si allontanasse dalla mia più tradizionale forma canzone, che è più o meno quella del folk singer.

Volevamo dare dall’inizio alla fine del viaggio un’idea di sospensione, un ambiente sonoro a pelo d’acqua, sospeso appunto tra cielo e mare, senza appigli, senza punti di riferimento terreni.

Rebaudengo e FiloQ sono stati bravissimi a utilizzare e misurare l’elettronica, unendola agli strumenti più classici come gli archi, la chitarra e il pianoforte, per raggiungere questo obiettivo, rispettando sacralmente il mio ruolo di cantautore.

Citazione da ufficio. “La ballata dell’acqua” è anche il video ufficiale che hai composto rispolverando vecchi filmati di repertorio di cui ti invito a parlarci. E qui torna Faber in qualche misura, torna la sua “Dolcenera” nei retrogusti davvero lontani ma inevitabili. Sono solo mie visioni edulcorate o c’è un fondo di verità? Tra l’altro parliamo di quel disco in cui Alvaro Mutis aveva “messo piede” (forse per la prima volta).

Per quanto sia genovese e il fantasma di De Andrè aleggi irrimediabilmente sulla produzione di ogni cantautore genovese, me compreso, il richiamo a “Smisurata preghiera” è avvenuto successivamente al mio incontro con Mutis e Maqroll. Non nego che la cosa mi abbia fatto molto piacere perché, senza volerlo, ho riallacciato attraverso le parole del nostro scrittore colombiano un filo che lega generazioni diverse di artisti genovesi.

“La ballata dell’acqua” ha in comune con “Dolcenera” il racconto della capacità distruttrice di questo elemento che può lavare, dissetare, dare vita e al tempo stesso toglierla in maniera atroce.

Le immagini del video sono bellissime e di questo ringrazio la cineteca della Fondazione Archivio Storico Ansaldo di Genova che mi ha permesso di utilizzare un film dei primi anni Trenta che racconta una vacanza sul Piroscafo Roma. C’è un senso di allegria e gioia nelle facce e nelle attività dei turisti e del personale di bordo, ma al tempo stesso la sensazione che qualcosa di terribile possa accadere. E nessuno saprà mai se sia accaduto o no.

Potrei davvero continuare per ore dopo l’ascolto di “Maqroll”. L’acqua, il gabbiere che scruta l’orizzonte, questo tempo in cui l’orizzonte si nasconde o ce lo vogliono confondere con la forma di qualcos’altro. Si vedono gabbiani in cielo, dunque la terra è vicina. Noi stiamo navigando a vista però, diretti e direzionali secondo le istruzioni che dice la televisione. Ma io ora mi rivolgo all’istinto di un uomo gentile (sempre per citare Cinaski), al naso di chi come te naviga da tutta una vita in mare aperto, dove stiamo andando secondo te? Che profumo c’è nell’aria? E i gabbiani che volteggiano, sono gabbiani per davvero o sono il frutto di una pubblicità “progresso”? Mi sa che stiamo imbarcando più acqua del previsto e se ci penso bene, se penso anche alla vita di tutti i giorni sui social, penso che ormai il grande mostro è davvero fermo e siamo noi ad andargli incontro. Sempre giocando con le metafore.

Il gabbiere che scruta l’orizzonte è, come questo album, qualcosa di molto poco contemporaneo. È l’attesa, la pazienza, l’attenzione. Tutti elementi che in questo correre, spesso a vuoto, sono andati perduti. Corriamo senza sapere dove stiamo andando. In una canzone di qualche anni fa scrivevo: “È tutt’intorno che appassisce, è tutt’intorno che c’è odore di liquame” e i gabbiani, così decantati dai poeti, restituiscono l’immagine della loro vera natura, che è quella predatoria, di animale feroce. Anch’io penso che stiamo imbarcando più acqua del previsto e, come Achab, inseguiamo il mostro, metafora delle nostre più livide ossessioni.

Per te, Federico, che disco è “Maqroll”?

Credo sia l’album che più mi rappresenti. C’è molto di “Maqroll” in me, nella mia vita, nel mio mestiere, nella mia incollocabilità geografica, esistenziale, sentimentale. È involontariamente molto autobiografico.


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