«Ho scelto accuratamente il repertorio di “Like a Fire”. Faccio del mio meglio per proiettare la trama e il messaggio in questi brani perché è il mio ministero: cantare canzoni d'amore, di pace, di speranza e di profezia. Tutto l’album è una predizione e una verifica della realtà per molti di noi». Estratto da intervista/articolo di soulexpress.net, 2008
Ascolto dopo ascolto, Like a Fire sale dentro fino a che non ti brucia. Solomon Burke, storico interprete e autore, nei sixties, di hit del calibro di “Cry to Me” e “Everybody Needs Somebody to Love”, anche quasi mezzo secolo dopo trascina l’ascoltatore in un mondo tra il sacro e il profano, tra luci e ombre, sempre pronto a dare la scossa e a far vedere la luce. E in questo modus operandi musicale e vocale l’artista evidenzia tutta la sua grandezza. Un personaggio mitico, nel 2008 oramai sessantottenne, tuttavia ancora fedele alle sue radici di iniziatore e ispiratore del country soul al pari di un’altra leggenda, Ray Charles.
Solomon Burke come un pastore (e in effetti lo era veramente) accoglie le sue pecorelle e parla loro per figure retoriche e ogni canzone è una parabola. Le parole vengono snocciolate con sentimento, mentre la generale ambientazione musicale presenta chiare sfumature roots per merito del grande Steve Jordan, qui nei panni di autore, produttore, batterista e ben coadiuvato da turnisti illustri del calibro di Danny Kortchmar, Dean Parks (chitarre), e Larry Taylor (basso).
Il disco si apre non a caso con la title song, un midtempo scritto dall’amico Eric Clapton. Il tocco di Burke sposta la struttura rock del pezzo verso un folk pop raffinato, arricchito da un pregevole arrangiamento d’archi. Pure la lenta, countryeggiante “Thank You” arriva dalla penna straordinariamente affilata di Slowhand, ma le liriche sono quasi tutte del padrone di casa (qui molto vicino a Louis Armstrong a livello di interpretazione), che ringrazia con profondità e spiritualità chi gli è sempre stato vicino nella sua esistenza, lasciando intuire un riferimento anche a Dio. “We Don’t Need It” presenta il primo ospite, Keb Mo’, alla chitarra acustica e cori, per un motivo vicino al genere Americana, tra lampi di Delta blues.
“The Fall”, una delle vette del disco, è una struggente ballata di stampo country con ancora una convincente performance vocale del “Re del rock ‘n’ soul”, e un organo (Rudy Copeland) e un piano (Larry Goldings) da favola. Composta da Steve Jordan e sua moglie Meegan Voss (vi è il loro zampino pure nelle orecchiabili, tuttavia mai banali, “Ain’t That Something” e “Understanding”) con il contributo di Kortchmar, contiene un messaggio davvero importante per la filosofia del Nostro. “Cosa salvare e cosa buttare per i nostri figli” potrebbe rappresentare bene in poche parole il significato del testo, ove si incita a dar loro tutto l’amore possibile, senza preoccuparsi dei beni materiali, la cui importanza è relativa.
Un altro apice dell’album è sicuramente la collaborazione con Ben Harper, che sfocia in una potente “A Minute to Rest and a Second to Pray”, rocciosa e di grande impatto. “Quando la notte cade su di me, cade sulla mia mente, prima di giacere, prima di giacere, prima di giacere. Mi prendo un minuto per riposare e un secondo per pregare”, canta Burke in un delirio di chitarre, tra peccato e redenzione.
Registrato a Los Angeles in un clima rilassato perfettamente congeniale per esprimere al meglio le potenzialità di questo artista illustre nato a Philadelphia nel 1940, Like a Fire ha ancora una prestigiosa partnership da sfoderare. Il simil valzer “What Makes Me Think I Was Right” e l’estatica “You and Me” giungono infatti da un songwriter speciale, Jesse Harris, noto per essere stato lo spirito propulsore del pluripremiato Come Away with Me di Norah Jones.
Dolore e compassione, peccato e compenetrazione convivono nella conclusiva “If I Give My Heart to You”, rivisitazione pop jazz di un classico dello swing realizzato per la prima volta da Connee Boswell esattamente settant’anni fa, e ripreso con successo, fra gli altri, da Doris Day e Nat King Cole. Una versione dolcissima, solo con piano, celeste e grancassa. Il modo migliore per chiudere un’opera memorabile, con l’evocazione di un brano da brividi interpretato in modo magistrale.
Costantemente innamorato della musica e della vita, allegro, esuberante e legatissimo all’Italia, paese in cui tiene uno dei suoi ultimi concerti a Mascalucia nel luglio 2010, il grande Solomon si spegne improvvisamente il 10 ottobre di quello stesso anno ad Amsterdam, a seguito di un malore occorso durante un viaggio aereo proveniente da Los Angeles. Rimane il ritratto e il ricordo di un artista illuminato, che ha saputo percorrere una lunga strada, piena di discese e di risalite, trovando sempre la maniera di reinventarsi e comunicare un messaggio di pace e speranza, anche nei momenti più bui.
«Ora devo mettermi in ginocchio
Puoi rivolgerti a ovest, puoi rivolgerti a est
I miei occhi stanchi possono vedere l'arrivo di un giorno migliore
Hai un minuto per riposare e un secondo per pregare
Un minuto per riposare e un secondo per pregare».