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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
02/11/2020
Incubus
Light Grenades
Il vertice della seconda parte di carriera della band californiana che, abbandonate l'irrequietezza e la sperimentazione degli esordi, ha virato verso un suono classic rock con vista sulle charts

La storia dei californiani Incubus, come per molte altre band, è quella di un percorso non lineare, di una carriera che potrebbe essere tranquillamente divisa in due parti, di un cambio di rotta e di suono, che ha portato la band da un sottobosco alternative per pochi intimi alle luci della ribalta mainstrean.

Nati e cresciuti a Calabassas, centro rurale del Sud della California, i compagni di classe Brandon Boyd (voce) e Josè Pasillas (batteria) incontrano Mike Eizinger (chitarra), fanno amicizia e sognano sogni di gloria insieme. L’idea è fondare una band, suonare alle feste degli amici e nei localini della zona. Si danno un nome inquietante, Incubus, come quel demone che nella mitologia medioevale sorprende le donne nel sonno e le violenta. Arruolato un bassista (Alex Katunich), i ragazzi vengono notati da Dj Lyfe, che leviga e completa il sound della band (diventando membro stabile), e dal manager Paul Pontius, che li porta alla Epic, come già aveva fatto con i Korn.

Inzia così la prima parte di carriera, aperto da un disco acerbo, ma interessante, dal titolo stranissimo: Fungus Amongus (1995). Un esordio ingenuo, forse, ma ricco di idee che girano intorno a un rock impastato con del funky sghembo, eccitato e adrenalinico, che paga pegno a Primus, Faith No More e Red Hot Chili Peppers. Un Ep (Enjoy Incubus, 1996) per schiarirsi ulteriormente le idee, e poi, finalmente, S.C.I.E.N.C.E. (1997), gioiello di anarchia crossover, in cui confluiscono funk, hip hop, metal ed elettronica, in un magma multiforme gestito con consapevolezza e maturità. Da questo momento, però, la band cambia pelle, la parabola creativa si arresta e la proposta si fa meno originale. Make Yourself (1999), chiude il millennio con un suono più contiguo al post grunge e con un approccio meno sperimentale e pirotecnico, che cede il passo a un suono più definito, morbido e sciolto.

E’ il primo passo verso il cambiamento definitivo, quello che segnerà la seconda parte della storia degli Incubus. Esce Morning View (2001) ed è chiaro fin da subito i ragazzi californiani sono diventati altro rispetto a ciò che erano il decennio precedente. La band non osa più, si guarda alle spalle e recupera il classic rock settantiano, mettendo in piedi una scaletta che alterna brani hard e ballate, un pizzico di psichedelia e qualche strizzata d’occhio a suoni radio friendly.

E’ la definitiva stabilizzazione, che prosegue con A Crow Left Out The Murder (2004), disco piacevolissimo, che attenua la volenza degli esordi per assestarsi su clichè pop rock poco innovativi, ma con vista sulle charts (Megalomaniac e Talk Shows On Mute sono due vere e proprie hit), e con questo Light Grenades (2006), che ribadisce la formula del predecessore, ma con una marcia in più.  

Perché se è vero che l’irrequietezza e la sfrontatezza degli anni ’90 si sono ormai spente, è altrettanto vero che la band sa scrivere belle canzoni (e non c’è un disco degli Incubus in cui non ne troviate almeno un paio). Il lavoro alla consolle di Brendan O’Brien (produttore che ha messo mano ad alcuni dei dischi più significativi degli ultimi quindici anni: Pearl Jam, Soundgarden, Rage Against The Machine, Red Hot Cilli Peppers, etc) garantisce, poi, una solida impalcatura rock, e anche se la melodia prevale sull’impeto, non mancano, comunque, momenti capaci di graffiare con feroce irruenza.

L’iniziale, psichedelica e onirica, Quicksand prepara il terreno di caccia per la furia leonina di A Kiss To Send Us Off, aggressione di decibel e chitarre appena stemperata da strofe di grande tensione levigate dalla bella voce di Brendon Boyd, che forse non avrà una funambolica estensione, ma sa cantare bene e con grande duttilità, tanto da riuscire talvolta a vestire anche i panni del crooner.

Il disco si basa soprattutto sulle ballate e su melodie accattivanti, eseguite, però, con quel piglio rock che tiene alto il livello qualitativo della proposta: Dig è costruita su un arpeggio di chitarra semplice e luccicante, possiede un ottimo crescendo d’intensità e ricorda alcune cose incise dei Pearl Jam con uno stile quasi identico, Oil And Water è ispida e malinconica, mentre Love Hurts è la hit che scala le classifiche e fa battere il cuore alle anime più romantiche.

Non tutto è centrato e alcuni episodi sono deboli e insipidi (Earth To Bella, part. 1 e 2), ma quando la band ingrana la quinta, sa ancora forgiare bordate di altissima intensità (il riff clamoroso di Anna Molly, primo singolo estratto dall’album, l’aggressione noise dell’ansiogena title track).  

Light Grenades non è certo un disco epocale, però rappresenta il vertice della seconda parte di carriera degli Incubus. Una band che aveva davanti a se un luminoso futuro di nicchia, e che invece ha scelto di imboccare la strada più semplice e meno tortuosa, che porta in cima alle classifiche. Niente di male, ovviamente, anche perché Brendon Boyd e soci sono comunque riusciti nel tempo a definire uno stile e, a dispetto di un’originalità ormai claudicante, a continuare a scrivere belle canzoni.


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