Un supergruppo dalle porte sempre aperte, da cui sono entrati e usciti, e continuano a farlo, musicisti straordinari che hanno segnato, ognuno a modo proprio, la storia del rock. Questa, in poche parole, la fotografia più nitida dei Dead Daisies, una band che, a dispetto di una line up instabile, continua a sfornare ottimi dischi, senza perdere un grammo dell’intensità espressiva e, per converso, senza cambiare una virgola, o quasi, di una proposta tetragona di fronte al tempo che passa e alle mode del momento.
Dopo due album, ha levato le tende Glenn Hughes (Deep Purple, Trapeze, Black Country Communion), mentre per quest’ultimo full length ha fatto ritorno in batteria il cantante John Corabi, già presente fra il 2015 e il 2019, che si affianca così al nuovo bassista Michael Devin (Whitesnake), e alle certezze Doug Aldrich, David Lowy (chitarre) e Tommy Clufetos dietro le pelli.
La proposta, come dicevamo, resta la solita, e cioè un hard rock potente e trascinante, che senza Hughes ha perso i predominanti elementi blues e funky, in favore di un approccio più ruvido, ma non meno elettrizzante. Ciò che stupisce è come, nonostante gli svariati cambi di line up, la band continua a suonare con un affiatamento a dir poco travolgente, alzando, nello specifico, anche l’asticella della qualità rispetto al precedente Radiance (2022), un disco piacevole, ma abbastanza ordinario.
Light ‘Em Up, invece, offre poco più di trentacinque minuti di ottima musica, in cui il gruppo si riconnette alle sua profonde radici rock’n’roll, sfoderando una grinta che riesce a far tremare i vetri delle finestre attraverso bordate di elettricità che mettono a rischio le casse dello stereo. Agli acuti di Hughes, uno che a settant’anni dà ancora la paga a tanti giovani ventenni, si è sostituito il timbro ispido e graffiante di Corabi, perfettamente a suo agio nell’aggredire i padiglioni auricolari con un cantato tanto duttile quanto intriso di whiskey e arrochito dal fumo.
La title track schizza via a velocità supersonica su un riff rubato a Angus Young, una partenza violenta e in derapata che mette subito in chiaro le cose. Più scanzonata ma non meno ruvida è la successiva "Times Are Changing", in cui emerge prepotente quell’anima rock’n’roll di cui dicevamo, mentre "I Wanna Be Your Bitch" corre dritta come un fuso, un’onda di sudicia energia che non fa prigionieri.
Una tripletta iniziale che mette in mostra i muscoli pulsanti di una band che sa il fatto suo: non solo la grande prova di Corabi, ma due chitarre spietate, che evitano fronzoli e inutili orpelli stilistici, e una sezione ritmica che avanza poderosa come uno schiacciasassi. Basta ascoltare la linea di basso di Devin in "I’m Gonna Ride", omaggio esplicito agli Ac/Dc, o quella ancor più possente di "Take A Long Line", esiziale punto di collisione fra un trasporto eccezionale di metallo e una Ford Thunderbird del ’57 guidata da un Elvis strafatto di metanfetamine, per capire a che folle velocità girino queste canzoni innervate di adrenalina pura.
Una corsa che rallenta solo nell’ariosa melodia di "Love That’ll Never Be", virile power ballad di ruvido romanticismo e nel conclusivo cadenzato rock blues con cui "Take My Soul" chiude un album a dir poco eccitante, forse anche superiore dell’acclamato Holy Ground del 2021. Bomba!