Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
08/07/2017
Cloud Nothings
Life Without Sound
La conferma definitiva per la band di Cleveland

Here And Nowhere Else, uscito nel 2014, era una sorta di lectio magistralis su come gestire la materia pop-punk, mantenendo un perfetto equilibrio fra melodie accattivanti, ritornelli catchy e la potenza deragliante di un noise rock urlato e vibrante. Un prodotto orgogliosamente alternative, calibrato su un suono aspro e lo-fi, che teneva i Cloud Nothing lontano dalle rotte adolescenziali di una miriade di band similari (e inconsistenti). Quel disco garantì alla band originaria di Cleveland una discreta dose di visibilità, grazie anche a canzoni in odore di epica, come I’m Not A Part Of Me, vero e proprio anthem celebrato, giustamente, sui media di mezzo mondo. Questo Life Without Sound, quarto capitolo di una discografia decisamente in crescendo, era atteso, dunque, come una sorta di prova del nove, la conferma definitiva di quanto di buono fatto dalla band fino a oggi. La certificazione che siamo di fronte a un gruppo consapevole e in crescita arriva fin dal primo ascolto: pur all’interno di canoni espressivi consolidati, Life Without Sound suona leggermente diverso dal suo predecessore. Gli spigoli, infatti, vengono in parte smussati, l’anima pop della band sembra prendere il sopravvento su certe asprezze noise. Eppure, il disco non sbraca mai nel banale, suona compatto e incisivo, merito di una visione d’insieme più matura e di un’idea di scrittura che si fa, album dopo album, sempre più brillante. Up To The Surface, che apre la scaletta, mette subito le cose in chiaro: il palpito malinconico di un pianoforte, la tensione vibrante, il cantato dimesso di Dylan Baldi, le partiture trattenute di chitarra, che poi esplodono in un muro shoegaze, rappresentano il rito di passaggio di una band che da gruppo di giovani talentuosi si trasforma in punto di riferimento per il futuro dell’alternative rock. In tal senso, le successive Things Are Right With You e Internal World sono brani talmente calibrati, talmente perfetti nel contemperare la melodia al ruggito della chitarra, da poter essere utilizzati come unità di misura del genere. Ma le cose vanno meravigliosamente bene anche quando i Cloud Nothings spingono il piede sull’acceleratore, cosa che succede in Darkened Rings, pezzo alla Sleater Kinney, con la chitarra inquieta a rincorrere se stessa in un vortice di riff assassini, o manda a memoria la lezione degli Smashing Pumpinks nel mid tempo dissonante di Enter Entirely o, ancora, sfonda la porta del noise con la cupa Strange Year, in cui lo screaming tutta gola di Baldi ferisce i padiglioni auricolari dell’ascoltatore. Chiude Realize My Fate, brano che parte austero e poi vira verso il basso di uno sprofondo cupo e senza speranza, confermando la capacità della band di maneggiare con eguale abilità due opposti: il ritornello solare e di facile presa (Modern Act) e i tormenti interiori che ci divorano nel buio della notte.