«Ever drifting down the stream
Lingering in the golden gleam
Life, what is it but a dream?»
(Lewis Carrol, Life is but a Dream)
«Pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Sì, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità così come essa aveva in mano me. […] Sono stato assalito dai ricordi di una vita che non era più mia, ma in cui avevo trovato le gioie più semplici e durature».
(Albert Camus, Lo Straniero, 1942)
Una lucida follia, intricata ma coerente, psicotropa e illuminante, senza dubbio bizzarra, forse quasi stravagante, ma sicuramente inattesa e sorprendente, densa dei richiami più svariati – musicali, filosofici e letterari – che per quanto rimangano omaggi visibili e affatto celati, le garantiscono un’originalità indubbia. In parole povere Life is But a Dream…, ultimo lavoro degli Avenged Sevenfold, è un’opera d’arte; il che non vuol dire necessariamente un capolavoro (per quanto la sua magniloquenza e l’impeccabile tecnica con cui è realizzato potrebbero anche portare a dirlo senza timore di troppe smentite), ma proprio un prodotto artistico in quanto tale: pensato, studiato, tecnico ma emotivo, realizzato di concerto ma dove l’individualità di ogni componente è visibile, permettendo alla somma delle parti di essere qualcosa di più di una mera addizione. Life is But a Dream… è la concretizzazione di un gesto di libertà, intimo e universale, realizzato a seguito di un percorso di consapevolezza, comprendente temi e riferimenti ostili, quotidiani ed esistenziali, ma è contemporaneamente leggero e giocoso, una festa di creatività e sperimentazione gioiosa, una bizzarria resa concreta che proprio per la sua seria levità è inequivocabilmente magistrale.
Dimenticatevi il metalcore dei primi album, così come l’hard rock e l’heavy metal dei seguenti, iniziate a supporre qualcosa con il progressive dell’ultimo The Stage (2016) ma poi andate decisamente oltre. I cinque di Huntington Beach (M. Shadows alias Matthew Charles Sanders alla voce, Synyster Gates alias Brian Elwin Haner Jr. alla chitarra solista e al pianoforte, Zacky Vengeance alias Zachary James Baker alla chitarra, Johnny Christ alias Jonathan Lewis Seward al basso e Brooks Wackerman alla batteria) con il loro ottavo album non si sono dati limiti. Con Life is But a Dream… si passa dal progressive a Frank Zappa, dal funk ai Mr. Bungle, dai Daft Punk a Frank Sinatra, dal trash alle ninnenanne, dal metal al jazz a Kanye West, dai Faith No More ai Rush, spesso nell’arco di un’unica canzone o di un’unica suite di pezzi.
Un album fatto per essere goduto tutto d’un fiato, dove 53 minuti di musica volano rapidi e alti, raffinati e audaci in egual misura. Un disco che verrà amato al primo ascolto da pochi, criticato e poco compreso dai più rigidi e che appassionerà con fervore i più curiosi e pazienti, che troveranno ascolto dopo ascolto sempre nuove sorprese: nuovi assoli, nuovi passaggi, nuove strofe da scoprire, nuovi riferimenti, nuovi groove o riff su cui perdersi e nuove melodie su cui sognare. Forse può sembrare decisamente troppo tutto insieme, forse è anche vero che lo è, esagerato nella sua bizzarria e nella sua molteplicità, ma ascolto dopo ascolto questa incredibile complessità diventa sempre più organica: pazzesca e stravagante, certo, ma a suo modo ordinata, perspicace e dotata di una profonda chiarezza di intenti, nitida nella sua tortuosa e non banale musicalità.
Life is But a Dream…, scritto e registrato nell'arco di quattro anni, mixato da Andy Wallace, prodotto da Joe Barresi e dagli Avenged Sevenfold stessi, comincia la sua sconsiderata cavalcata con “Game Over”, un viaggio che inizia come una ninna nanna dolce e malinconica per poi trasformarsi in una galoppante frenesia alla System Of A Down e mutare ancora in una rigogliosa e spavalda opera dai toni più lievi.
La successiva “Mattel”, che porta il nome di una nota azienda di giocattoli, inizia invece da subito pesante, per poi alternarsi a strofe di dolcezza quasi zuccherina in un duro crescendo prog-rock che lascia spazio anche ai synth per finire nel jazz. L’equivoco binomio di sogno e realtà prende forma in questo dualismo quasi bipolare di sonorità, nato da un epifanico momento alla Truman Show di M. Shadows (che difatti nel testo stesso della canzone cita la nota battuta del film: «nel caso in cui non ci rivedessimo più: buon pomeriggio, buona sera e buonanotte»). Mentre Shadows stava camminando con il suo cane per strada, si è reso conto di quanto tutti nel sud della California abbiano nel proprio giardino dell’erba finta e spesso si atteggino anche come improbabili attori alla Truman Show, finendo per pensare che stiamo vivendo in un mondo sempre più artificiale alla ricerca di un significato. «Ora, so che potrà suonare folle, ma ho annusato le margherite di plastica e sembra che abbiamo trovato noi stessi all’inferno».
Con le due tracce successive, si entra nel vivo. “Nobody”, primo singolo del disco, si struttura su di un incessante crescendo, combinando progressive, archi, esplosioni di chitarra noise, jazz, armonie vocali, tensione martellante, groove insinuante e un elegante assolo rock e prog, il tutto (come sottolinea il bassista Johnny Christ) vissuto “come se il suono fosse ispirato a Terminator 2: sembrava che il metallo diventasse liquido”. Al brano si abbina un video musicale in stop motion realizzato da Chris Hopewell, un lavoro artigianale che talvolta richiede 90 minuti solo per realizzare 2 secondi di girato. Prima dell'uscita del brano, invece, la band aveva lanciato un'elaborata e misteriosa caccia al tesoro digitale con enigmi, codici, immagini e post sul blog, tutti scritti da Chat GPT, DALL-E 2 (un sistema di Open Artificial Intelligence che può creare immagini e arte da poche frasi descrittive) e modificatori vocali.
“We Love You”, che Brooks Wackerman sintetizza come “un incrocio tra Mr. Bungle e R. Kelly”, si struttura come un martellante e ammaliante susseguirsi di techno, hardcore, incredibili performance alle percussioni e alla chitarra acustica. La claustrofobia sonora dell’elencazione infinita dei desideri crescenti dati dal mondo capitalista, della brama ad avere, possedere e conquistare sempre di più, unita al contraltare della beatitudine di un mondo prima che la follia iniziasse e a cui forse si dovrebbe aspirare a tornare. Una composizione magistrale e ammaliante, accompagnata per l’occasione da un video musicale realizzato dall'artista Ryan McKinnon con Unreal Engine. Grazie a questo software, normalmente utilizzato per la realizzazione grafica di videogiochi in prima persona, si è realizzato un incredibile video a 360°, ovvero un’esperienza visiva e sonora che, se guardata con il proprio cellulare, permette di “navigare” nell’ambiente muovendo lo schermo. Un’esperienza tutta da provare, mentre si osserva un mondo pacifico e naturale venire sempre più edificato nel corso dei millenni, fino al collasso, quando con un messaggio di errore sullo schermo si viene riportati ad uno stato di natura, ma dove le vestigia della nostra società fallita sono ancora visibili.
Con “Cosmic”, “Beautiful Morning” e “Easier” si giunge al nucleo centrale dell’album. La splendida “Cosmic” è una piccola epopea di space-rock, con un lavoro di chitarra di Synyster Gates e di Zacky Vengeance impressionante, dove sul finale Brooks ha registrato su più batterie in contemporanea (“Inciampavo sui rullanti perché ce n'erano così tanti sul pavimento! Era il sogno erotico di un batterista”) e in cui si intrecciano riferimenti a Kayne West, David Bowie, Daft Punk e Elton John. “Beautiful Morning” è invece influenzata dagli Alice In Chains e dai lavori di Brian Wilson, nata come piccola dichiarazione d’amore alle cose che la band ama ascoltare. “Easier”, dal canto suo, si presenta come un pezzo di funk-metal influenzato da Kanye West, Stevie Wonder, Daft Punk, Led Zeppelin e Faith No More; riff hard rock e vocoder non sono mai andati così d’accordo.
La successiva suite di tre canzoni, “G”, “(O)rdinary” e “(D)eath”, si staglia sul finale dell’album pronta a dare il colpo fatale all’ignaro ascoltatore. “G” è puro prog rock jazz alla Rush, Mr. Bungle/Mike Patton e Frank Zappa, con un M. Shadows in vece (e voce) di un dio sadico e quasi luciferino che dichiara: «al settimo giorno ho pensato alla pace nel mondo, ma ho deciso di toglierlo».
“(O)rdinary” è un palese omaggio funk ai Daft Punk e racconta la storia di un robot che tenta di parlare al suo creatore («Mi darai la mia anima? Mi lascerai prendere il controllo? Voglio vedere le cose che vedi tu. Voglio essere l'uomo che sei tu. Voglio conoscere i segreti che hai dentro. Voglio conoscere i sentimenti che nascondi. Mi darai la mia anima, il controllo. Dimmi come sognare, e dimmi cosa significa. Dimmi come sentirmi, e dimmi che credi. Dimmi tutte le cose che volevi che io fossi. Dimmi quando sono veramente vivo. Riesci a sentire il mio amore? Puoi sentire il mio amore?»), mentre “(D)eath” è un’imprevista ballata alla Frank Sinatra, descritta da Zacky come “completamente deprimente e assolutamente gloriosa allo stesso tempo; una sorta di accettazione del folle viaggio che è la vita e di come tutti noi finiamo per abbandonarla”.
Il trio di brani il cui titolo significa “G.O.D.” sono un azzardo ancora più estremo dei precedenti, ognuna quasi radicalmente diversa dall’altra, eppure unite, forse nell’assurdità e nell’insensatezza di quelle che sono le variabili e multiformi sfumature della nostra esistenza. Un trittico dal sapore eretico, religioso e quasi ironico, visto che richiama la progressione dantesca di inferno-purgatorio-paradiso, ma dove l'inferno è la "G" di God, chi parla è sì un dio ma quasi satanico, il purgatorio è un "ordinarietà" della vita, ma pronta a divenire incontrollabile tra AI e nuove tecnologie, e il paradiso ha toni soavi e sognanti nelle melodie, ma si intitola "Death", morte.
Il viaggio tra il terrore esistenziale e la bellezza celestiale si conclude forse con quest’ultima, grazie alla meravigliosa title track “Life is But a Dream”, che vede Synyster al pianoforte per un brano che aveva scritto in MIDI per M. Shadows e sua moglie in occasione della nascita del loro primo figlio, più di dieci anni fa. Un brano che Shadows ha così tanto amato da chiedere a Syn stesso di inserirla come traccia suonata al pianoforte per la chiusura del loro album. Un onore immenso per Syn, ma anche un lavoro notevole poiché, non avendo una formazione classica, gli ci sono voluti due anni per realizzarla, esercitandosi al pianoforte due ore al giorno. In aggiunta, una volta pronta, Syn riteneva di poter suonare il pezzo “solo” sul suo pianoforte, quindi il produttore Joe Barresi è dovuto andare a casa sua e costruire uno studio solo per registrare il piano della traccia finale.
Quella di Life is But a Dream… è un’impresa sonora e artistica che non si limita ad essere un mero sfogo di tecnicismi e passioni musicali condensate, ma vive anche di riferimenti filosofici, testuali e letterari specifici. Questi da un lato sono solo suggestioni per un percorso personale, che vede le esperienze individuali e le doti compositive di M. Shadows e Synyster sbocciare al loro meglio; dall’altro sono un interessante crocevia di pensieri, che permette a queste ultime di poter emergere e definirsi nel loro pieno potenziale, rimanendo più o meno celate tra una strofa e un passaggio prog o jazzy.
Il primo riferimento in ordine di importanza è senza dubbio Albert Camus, scrittore e filosofo esistenzialista francese noto per la sua “lotta contro l’assurdo” e la mancanza di senso dell’esistere, un assurdo che però non è tanto connaturato nell’uomo, quanto piuttosto nelle maniere in cui l’uomo stesso struttura la sua esistenza e le sue modalità di convivenza con il prossimo. In Life is But a Dream… l’ispirazione giunge in particolare dal romanzo Lo Straniero (1942, che già nel 1978 aveva ispirato i Cure per il loro singolo “Killing an Arab”), la storia di Meursault, un piccolo impiegato che vive ad Algeri e conduce un'esistenza chiusa in uno squallido conformismo. Un giorno, quasi per caso, questi uccide un arabo. Arrestato, non tenta neppure di giustificarsi o di difendersi: viene processato e condannato a morte. Camus racconta quindi di un delitto assurdo e denuncia l'assurdità di vivere, la mancanza di significato e senso in tutto ciò che ci circonda, portando Meursault a rendersi conto di quanto l'universo stesso sembri indifferente rispetto all'umanità e quanto questo, in fondo, lo renda felice.
Un romanzo esistenzialista che è sintesi di alcune delle riflessioni che nei sette anni trascorsi da The Stage M. Shadows si è ritrovato a compiere: cosa significa non esistere? E come affrontare il fatto che questo prima o poi riguarderà sia te stesso che tutti quelli che ami? Davanti a delle domande simili, soprattutto nel momento in cui vengono poste e affrontate seriamente, si rischia di perdersi.
Anche per questo, o forse proprio per questo, la “guida” in questo oscuro dedalo dell’animo è stata trovata in uno sciamano e nella 5-MeO-DMT, una triptamina psichedelica presente in numerose piante e nel veleno di un rospo (oltre che componente principale dell’Ayahuasca), utilizzata da tempo immemore da diverse tribù sudamericane per guidare stati di coscienza alterati che portano a visioni rivelatrici e ad uno stato di morte apparente di qualche minuto. Un viaggio profondo, spaventoso e rituale che ha aiutato M. Shadows a riconnettersi con le cose banali della vita (guardare un film con i propri figli, fare una passeggiata con la propria compagna, andare a trovare i propri genitori alle feste anche quando magari ti dicono delle cose che ti danno fastidio, etc.) che, come ha dichiarato con un sorriso in un’intervista a Kerrang, “sono in realtà la ricompensa della vita”.
La cover art dell’album – un Tristo Mietitore in piedi su una sporgenza, attorniato da teschi e fermo nell’atto di brandire la sua falce – realizzata dal famoso artista Wes Lang (salito alla ribalta per le grafiche del tour di Yeezus di Kanye West), ricorda quanto la morte sia lì ad attendere tutti quando sarà il loro momento e rappresenta l’esistenzialismo da cui tutto il disco è nato, ma è forse nel titolo scelto che si cela la vera sintesi.
Life is But a Dream rappresenta la duplicità sottesa all’assurdismo di Camusiana memoria, ma anche gli esiti epifanici delle psicotrope esperienze tribali. E forse non per nulla l’ultima traccia dell’album, dedicata ad una nuova nascita e a tutto ciò che di bello, brutto, spaventoso ed emozionante ne consegue, porta lo stesso titolo.
Lewis Carrol, a fine Ottocento, scrive la poesia “Life is But a Dream”, che ruota attorno al tema dell’importanza della vita: le risate, i momenti felici, quelli spensierati e sognanti inevitabilmente finiranno, ma rimarranno i ricordi e tutto ciò che si è fatto per fissare quella ricchezza di animo e menti: un libro, un’opera, un album. E quindi va bene, anche se tutto scorrerà via, inconsapevole o inevitabile che sia, perché rimarrà ciò che abbiamo concretizzato e ciò che abbiamo vissuto. Quindi che importa se la vita è o meno un sogno o un battito d’ali di una farfalla, se ha un significato o se è solo un assurdo accadere su cui inventiamo delle regole, godiamoci i piccoli momenti di cui è composta e se possiamo divertiamoci nel comporli, per renderli così fugacemente, sconsideratamente ed euforicamente immortali.