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REVIEWSLE RECENSIONI
01/08/2019
Palace
Life After
Musicalmente non c’è nulla di nuovo: siamo sempre dalle parti di un Indie Rock melodico e vagamente epico, con chitarre imponenti e raffinate ed un grosso carico emozionale nelle linee vocali.

I Palace dovremmo ricordarceli bene anche noi. Li ha intervistati addirittura Rolling Stone a seguito dell’uscita del primo disco e a fine 2017 sono passati per due date, se non sbaglio Milano e Bologna. Tra le altre cose, hanno appena suonato al Mad Cool di Madrid e i loro concerti in patria, a quanto sembra, sono sempre parecchio affollati. NME li aveva segnalati tra le sicure promesse già dopo la pubblicazione di “Lost in the Night”, ep d’esordio datato 2014.

Bene, allora perché alla maggior parte della gente questo nome suonerà nuovo? Colpa dell’enorme numero di uscite con cui ci tocca confrontarci ogni mese, se non ogni settimana, e che ci costringe, se vogliamo davvero essere aggiornati su tutto, ad un frenetico mordi e fuggi che lascia il tempo che trova e che ci lascia di solito più disorientati di prima.

Comunque sia, la band di Londra ha pubblicato “Life After”, secondo disco della sua carriera e le lodi in giro per il mondo si stanno sprecando. Nato dopo un periodo di dolore, con un lutto famigliare che ha colpito il cantante Leo Wyndham, le dieci canzoni che compongono questo lavoro si configurano come un tentativo di andare a fondo di questo dramma e di trovare un modo per risollevarsi. Non a caso il primo e l’ultimo brano in scaletta, “Life After” e “Heaven Up There”, esprimono l’interrogativo che possa esistere un altro mondo, un’altra vita, dove tutti i desideri possano trovare compimento e dove il dolore della perdita possa essere abbracciato.

Questa sorta di incompiutezza aleggia su tutte le composizioni, che non a caso suonano molto più intense del solito, con un senso di urgenza e un’irruenza che non si riesce a mascherare. Musicalmente non c’è nulla di nuovo: siamo sempre dalle parti di un Indie Rock melodico e vagamente epico, con chitarre imponenti e raffinate ed un grosso carico emozionale nelle linee vocali. La critica ha fatto i nomi di Elbow, Local Natives e Coldplay (ovviamente quelli dei primi due dischi) ma sinceramente credo che i riferimenti più lampanti, almeno per questo album, siano i Death Cab for Cutie più classici, quelli di “Transatlanticism e “Kintsugi”, oltre che gli Suede più magniloquenti degli ultimi lavori.

In ogni caso stiamo parlando della pagina meno fortunata, almeno dal punto di vista mediatico, del panorama rock britannico, al momento stretto tra il Pop commerciale dei 1975 e le sfuriate Post Punk ad alto tasso di denuncia sociale di IDLES, Shame e degli ultimi arrivati Fontaines D.C.

Di suo, “Life After” è un buon disco: suonato bene, prodotto altrettanto (Catherine Marks e Luke Smith del resto sono due nomi di indiscusso valore), vive di bei momenti, come l’iniziale title track, “Berlin” (che non è la capitale della Germania ma un locale di New York dove Leo ha incontrato l’attuale fidanzata), le anthemiche “Younger” e “Running Wild” o, sull’altro versante, le più soffuse e vagamente zuccherose “Martyr” e “All in My Stride”.

In generale però i pezzi funzionano tutti, non c’è dubbio che questi tre ragazzi (oltre a Wyndham ci sono anche il chitarrista Rupert Turner e il batterista Matt Hodges) ci sappiano fare ed abbiano nel tempo imparato ad implementare sempre di più le loro doti compositive. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole ma il follow up di “So Long, Forever” è un disco che convince e che piacerà sicuramente a tutti quelli che hanno amato quella declinazione dell’Indie Rock che tanto clamore destò ad inizio millennio e che tuttavia non è mai riuscita a lasciare dietro di sé una vera e propria eredità.

Ed è proprio qui che sta il problema, almeno per come la vedo io: i Palace sono un buon gruppo ma suonano un genere che appare datato e privo di sbocchi e, pur nella loro immediatezza, sono un po’ troppo sofisticati per chi cerca emozioni a buon mercato e senza troppe pretese. Oltretutto, nonostante la bontà del loro repertorio, nonostante la bravura nel confezionare singoli, non c’è nessun brano che faccia gridare al miracolo, che riesca ad elevarsi nettamente al di sopra di una media qualitativa che, pur rimanendo alta, oggigiorno non basta più per spiccare il grande salto.

Vedremo come andrà, comunque: al momento mi sento di consigliare l’ascolto di questo disco ma non punterei su di loro, tra i nomi di cui in futuro si sentirà parlare ovunque.


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