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REVIEWSLE RECENSIONI
18/05/2019
Liberato
Liberato
Nella smorfia napoletana il nove da oggi starà per Liberato. La numerologia diventa ricorrenza e poi ossessione tanto che, se si deve dare un voto a un progetto riuscito, è impossibile non tenerne conto.

Quello che è certo è che gli owner del progetto Liberato non hanno fretta. Dal 13 febbraio 2017, data di rilascio del primo singolo “Nove maggio” su Youtube, di Liberato sono uscite una manciata di canzoni - undici - appena sufficiente a riempire un long playing di durata standard. Un disco che, com’era facilmente prevedibile, ha visto la luce proprio il nove maggio 2019, dopo che il nove maggio 2017 era stata la volta di “Tu t'e scurdat' 'e me” e, a ridosso della stessa data dell’anno successivo, Liberato aveva pubblicato altri brani. 

Il punto è che con un fenomeno così sulla cresta dell’onda - quello che i giornalisti che invidiano il fatto che qualcuno nutra una passione chiamano hype - come lo è stato nei primi mesi dal lancio, qualunque discografico non ci avrebbe pensato due volte a spingere il sound dell’entità partenopea sui canali più redditizi, secondo il modello di coltivazione artistica intensiva tipico del nostro tempo e che, dello show business, è un po’ la morte sua.

Il rilascio a dosaggio a dir poco omeopatico invece è risultato una mossa vincente. La qualità è più efficace della quantità e a riportare il fenomeno Liberato, latente da qualche mese, al centro del dibattito dell’indie italiano, dell’élite culturale e dei social network, è stato sufficiente un nuovo set di brani abbinato ai consueti video-gioielli di Francesco Lettieri (i cinque episodi di “Capri-rdv”, per un vero e proprio video-ep), in un contenitore-full length - in un primo momento solo in formato Spotify - ma che trasmette l’impressione di essere già un greatest hits a proposito del quale parlare di una raccolta di singoli di successo, o di tutti i brani pubblicati, ad oggi è la stessa cosa.

Le chiavi di lettura e gli spunti per trattare di Liberato sono dunque molteplici, a partire dal fatto che attribuire alla sua musica l’etichetta trap - una semplificazione appena accettabile per i non addetti ai lavori - è estremamente riduttivo. Liberato con la trap ha in comune solo il fatto che è figlio del nostro presente, i bpm dimezzati sul tempo che qualunque ascoltatore poco avvezzo al nu-soul conterebbe al doppio del loro valore, i suoni di cassa che si schiantano al suolo esplodendo in un boato profondissimo di bassi in grado di coprire tutto il resto delle frequenze per qualche decimo di secondo, e infine il flow melodico stemperato comodamente nel beat. 

Ma basta un ascolto consapevole per accorgersi di quanto le basi di Liberato siano distanti anni luce da quelle dei beniamini dei pre-adolescenti che impazzano su Youtube. Un tappeto di suoni sintetici, riconoscibilissimo per la componente di elettronica evoluta con cui Liberato marca prepotentemente la differenza. Non sono pochi i temi di synth, e l’impiego della ritmica (talvolta in levare) suonata con timbri di pad, ora dalla risonanza tagliata cupa e ora con filtri dall’apertura progressiva, è ricorrente in molte tracce e ormai un vero e proprio marchio di fabbrica. 

L’uso dei sample è invece accuratamente misurato e intelligente, come il breakbeat jungle di “Guagliò” o la vibrazione dello smartphone campionata in chiusura di “Je te voglio bene assaje”, uno dei rumori più riconoscibili dalla generazione always on. Il baratro delle linee di basso, così sotterraneo da sfondare i subwoofer, si mescola alle kick intonate e agli handclap della drum machine, la body percussion artificiale a sostituzione dei colpi di rullante programmata per raddoppiarsi e quadruplicarsi, un escamotage pensato per guidare le aspettative dell'ascoltatore verso l’alto sino al raggiungimento della vetta del pathos, in un punto di non ritorno in cui non resta altra scelta che lanciarsi nello strapiombo del ritornello, svuotato di tutto. 

Le melodie di Liberato sono uniche e si richiamano l’una con l’altra poggiando su arrangiamenti raffinati, mentre la ritmica - modernissima - spazia dalla trap, all’house, al dub e persino al trip hop. C'è chi ci coglie anche del reggae, ma non è un genere di moda ed è meglio non alzare tanto la cresta. In tutto questo emerge la voce del misterioso crooner partenopeo e il suo modo di trasformare la canzone napoletana - quella che va da Nino d’Angelo ai neomelodici, passando per Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Canto Popolare e gli Almamegretta - grazie all’incontro con l’elettronica più spinta. 

La tradizione più tradizionale che c’è e che non si stanca mai di parlare d’amore, in un esperanto frutto di una babele di dialetto, inglese, italiano e spagnolo. E poi, soprattutto, Napoli, la città colta nel paradosso dell’iperconnessione impiantata sul degrado della civiltà e della più moderna digitalizzazione contrapposta all’entropia con cui le periferie si divorano reciprocamente i confini creando il disagio che leggiamo nella cronaca nera o nell'epopea delle serie tv sulla mala del posto. Ma si tratta di mere constatazioni: nessuno denuncia niente (almeno non in modo esplicito) e nemmeno qui si chiede a qualcuno di ribellarsi, tanto che la citazione di “Get Up Stand Up” di Bob Marley - nella versione del “Live!” del 75 - che si trova ancora in "Guagliò" è solo una finezza per acchiappare il plauso di qualche cinquantenne irriducibile e idealista. Il tutto nell’idioma più musicale del mondo. Liberato è la conferma di quanto il napoletano sia secondo solo alla metrica anglosassone come ciliegina sulla torta delle canzoni, come ci avevano già dimostrato i Massive Attack nei loro “Napoli Trip” in compagnia di Raiz.

Ma “Liberato” è anche un album, che si conferma un prodotto che al momento in Italia non ha eguali e tutt’altro che pensato per il pubblico infantile della trap modaiola. Un disco più o meno d'esordio in cui si riesce a far passare una sostanza di una nobiltà senza tempo in una forma da millennials, con un sound costruito per essere amplificato con impianti di un certo livello e non solo alla mercè degli speaker portatili bluetooth, occultati in qualche modo negli zaini North Face all’uscita da scuola a far gracchiare uno sferaebbasta qualunque.

A prova di tutto questo c’è la componente video, che va considerata parte della materia stessa dei brani di Liberato. Per la prima volta, nella storia dei videoclip come li abbiamo conosciuti fino ad ora, il concetto di concept album è superato da un insieme complementare tra musica e video, una stagione immaginaria di una serie esclusiva di un canale streaming ad abbonamento, alla maniera di fruizione a cui la nostra società si è ridotta con puntate da divorare una dietro l’altra per arrivare il prima possibile all’episodio conclusivo. 

Le canzoni che già conoscevamo - “Nove maggio”,  “Tu t'e scurdat' 'e me”, “Intostreet” e “Je te voglio bene assaje” - sono raccontate dalla storia d’amore tra la ragazza upper class e il guaglione dei quartieri popolari. In mezzo “Gaiola” (nell’album in versione acustica rispetto al singolo Youtube) e la splendida “Me staje appennenn' amò”, accompagnata dal docu-film sulla condizione dello transgenderism visto tra l’emancipazione nella vita notturna e le complessità dello stare a cavallo tra più sessi nelle relazioni quotidiane e familiari. Quindi i brani nuovi - “Oi marì”, “Tu me faje ascì pazz'”, “Guagliò”, “Nunn'a voglio 'ncuntrà” e “Niente” - dedicati alla passione che irrompe tra Carmine Vuotto e la bella attrice francese Marì. Il cinema italiano dei grandi registi in bianco e nero degli anni sessanta e il gossip collaterale: la star internazionale che seduce il ragazzo chiamato ad accompagnarla in barca, nella cornice romantica dei faraglioni di Capri sullo sfondo. Una trama che si snoda lungo cinque episodi/tracce fino al finale in cui una Marì, oramai anziana nel 2019, nel brano “Niente” ritorna a Capri per l’ultimo omaggio al grande regista e, terminata la cerimonia funebre, trova il tempo per un saluto alla lapide del suo Carmine, scomparso qualche anno prima.

E, su tutti, è proprio il video dell’epilogo ad essere straordinario. “Niente” è una clip girata e montata come una lunga sequenza di jpeg in una sorta di stop-motion a larga frequenza di keyframe, una magistrale opera d’arte contemporanea realizzata con il susseguirsi di foto delle vacanze caricate dallo smartphone acriticamente in un album Facebook senza la preoccupazione di spostare nel cestino prima le immagini venute mosse, quelle con gente che non c’entra niente sullo sfondo, quelle inquadrate male, quelle esteticamente oltraggiose, perché comunque lo spazio sui nostri dispositivi e nei vari drive del cloud è infinito e non ha senso perdere tempo per buttare via qualcosa. 

Lettieri si conferma ancora una volta il regista musicale del momento, una personalità unica nel modo di trasformare con il suo storytelling la trama delle canzoni. La grandezza di Liberato è anche la suggestività delle storie che lo accompagnano sullo schermo. E il punto è che anche le recensioni musicali dovrebbero adeguarsi a queste nuove pratiche: oggi è sempre più urgente considerare la musica un tutt’uno con i video, con i social che ne decretano la viralità, con la rete che li fa arrivare ovunque e on demand e con i meme che ne conseguono. Quella di Liberato è una musica aumentata, come la realtà su cui inseriamo un piano digitale di informazioni contestuali. Difficile dire se si tratta già della canzone italiana del futuro. Per non perdere tempo godiamocela nel presente, e chi se ne importa se, di Liberato, al momento non sappiamo nemmeno che faccia abbia.


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