In un anno in cui il britpop è tornato ad affacciarsi sulle pagine delle riviste specializzate (Kula Shaker, Cast) e sta vivendo un ritorno di fiamma per tanti appassionati, suona come un’ennesima, bella notizia questa estemporanea (?) collaborazione tra due mostri sacri del genere. Uno, il più noto, è Liam Gallagher, leader tracotante e bizzoso, insieme al fratello Noel, degli Oasis, nonché voce iconica del movimento; l’altro, meno conosciuto, è John Squire, chitarrista degli Stone Roses, band di nicchia con due formidabili dischi all’attivo, e nume tutelare del primo. L’amicizia fra i due è di lunga data, ma pare che l’idea di questa collaborazione, così raccontano le cronache, sia nata dietro le quinte del festival di Knebworth, dove Liam e John hanno dato l’abbrivio a un progetto, poi pianificato e, quindi, messo in atto.
Le canzoni sono tutte a firma Squire, mentre Liam ci mette il suo riconoscibilissimo timbro vocale. Al loro fianco, altri due ottimi comprimari: Greg Kurstin, che produce e si cimenta al basso, e Joey Waronker alla batteria. Pochi ma buoni, come buona è la resa finale di un disco che, a dispetto delle aspettative, suona molto meno brit pop di quanto ci si potrebbe immaginare.
Se è indubbio, infatti, che il patrimonio genetico mostra i cromosomi, e non potrebbe essere altrimenti, di quel periodo d’oro che va dalla fine degli anni ’80 alla prima metà del decennio successivo, il disco suona molto meno pop di quanto ci si potrebbe aspettare, offrendo, invece, all’ascoltatore un impianto maggiormente rock blues. La voce strascicata di Gallaher e la chitarra distorta di Squire rendono semmai omaggio a quel periodo, sul finire degli anni ’60, in cui psichedelia e chitarre rombanti spingevano verso lidi contigui all’hard rock.
Il risultato è un disco scarno, rumoroso, essenziale, in cui la chitarra graffiante di Squire scartavetra belle melodie che rimandano, ovviamente e soprattutto, ai Beatles, con citazioni sparse di altre leggende di quegli anni. Stupisce, quindi, che, sgorgando il songwriting esclusivamente dalla penna del chitarrista, il suono di queste dieci canzoni incarni maggiormente le vesti rockiste, spudoratamente british e working class del sodale Gallagher.
L’iniziale "Raise Your Hands", una sorta di invito a divertirsi prendendola come viene, è il brano più melodico e più vicino ai ’90 del lotto, anche se è inevitabile cogliere quegli echi Fab Four che rappresentano il corpus principale dell’opera. Con "Mars To Liverpool", nonostante la bella melodia, i suoni si irruvidiscono un po’, grazie a un riff di stonesiana memoria (nel senso di Rolling Stones) e a un assolo spettacolare di Squire. Se "One Day A Time" incorpora il brit pop in quota Oasis, "I’m A Wheel" è un bluesaccio cadenzato e distorto (qualcuno ha pensato a "Yer Blues" dei Beatles?), "Just Another Rainbow" spalanca la porta alla psichedelia, mentre "Love You Forever" cita addirittura Jimi Hendrix, incastonando un ritornello che più Oasis non si può. Nell’ultima parte del disco, c’è ancora spazio per il rock’n’roll sparato di "You’re Not The Only One", la psichedelia sixties di "I’m So Bored" e la ballata "Mother Nature’s Song" che, insieme alla breve "Make It Up As You Go Along", è l’episodio meno significativo della scaletta.
Non so se si possa definire questo album come un’operazione nostalgia. Di certo, qui non troverete nulla di nuovo e tutto risulta essere abbastanza risaputo, anche se i due protagonisti del progetto sono talmente brillanti e conoscono a menadito le loro fonti d’ispirazione, da rendere i quaranta minuti di ascolto godibili e divertenti. Non solo per fan del britpop.