“Voglio raccontarti l’intera mia vita, questa vita che
cominciò davvero soltanto il giorno in cui ti conobbi.”
Scrittore, poeta, saggista, drammaturgo, giornalista, biografo, traduttore e molto altro, ma soprattutto, Stefan Zweig (Vienna 1881 - Petrópolis 1942) è stato un europeista e un pacifista convinto.
Ha all’attivo una produzione letteraria immensa ed eterogenea, i suoi libri sono stati tradotti in tutte le lingue e hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo.
Ebreo, secondogenito di una famiglia ricchissima - suo padre era un industriale, mentre sua madre, nata in Italia, precisamente ad Ancona, apparteneva a una famiglia di banchieri - dotato di una personalità vibrante e di una mente raffinata, ebbe la fortuna di crescere e plasmarsi in una Vienna che, all’epoca, non era solo la capitale dell’Impero Austro-Ungarico, ma anche il cuore pulsante della vita politica e culturale di tutta Europa.
Una volta conseguita la laurea in filosofia, per completare la sua formazione personale e ampliare i propri orizzonti, viaggiò molto, spingendosi fino in Asia e America. Visse lunghi periodi tra Londra e Parigi e si innamorò dell’Europa intera, di cui si sentiva cittadino. Amico di personalità influenti e scrittori importanti, tra gli anni Venti e Trenta raggiunse l’apice del successo.
Purtroppo, però, con l’avvento del Nazismo, la sua vita, come quella di tutti coloro che si opponevano al regime, fu inevitabilmente segnata. I suoi libri, insieme a quelli di molti altri scrittori, vennero bruciati durante le cosiddette “Bücherverbrennungen” e lui, temendo per la propria incolumità, nel 1934 fu costretto ad abbandonare l’Austria per rifugiarsi a Londra e in seguito, seppur a malincuore, dovette lasciare definitivamente quell’Europa che amava tanto per trasferirsi, insieme alla sua seconda moglie, Lotte Altmann, a New York e in seguito a Petrópolis in Brasile, dove entrambi, il 22 febbraio del 1942, posero fine alle proprie vite con una dose massiccia di barbiturici, suggellando così, in modo definitivo ed eterno il loro amore: “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai più.” (Stralcio di una lettera inviata ad Alfred Altmann)
Accanto ai corpi venne ritrovato un biglietto d’addio intitolato “Declaração”, sul quale, in una manciata di righe, uno Sweig ormai disincantato e depresso riuscì a condensare tutto il suo dolore, disagio e senso di smarrimento per una realtà che non sentiva più sua, a cui faceva fatica ad adattarsi, convinto che non esistesse una via d’uscita, perlomeno nell’immediato: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo. Penso sia meglio concludere in tempo e in piedi una vita in cui il lavoro intellettuale significava la più pura gioia e la libertà personale il bene più alto sulla Terra”.
Come accennavo nel mio incipit, Sweig, nell’arco della sua vita, ha scritto tantissimo e non ha mai smesso di farlo, nemmeno durante il suo esilio, anzi, fu proprio durante la sua permanenza a Petrópolis che pubblicò quella che è considerata la sua opera più bella: “Il mondo di ieri”, un libro nostalgico, che racconta e ripercorre l'Europa d'inizio Novecento, quella in cui lo scrittore era cresciuto, fino ad arrivare alla tragica affermazione nel nazismo.
“Lettera di una sconosciuta”, invece, è un racconto breve, di tutt’altro tenore, pubblicato per la prima volta nel 1922. Una manciata di pagine che non arrivano a cento, che però sono un condensato di poesia e bellezza. Un piccolo universo in cui l’amore, nella sua forma più pura, assoluta, struggente e sublime prende forma, attraverso un uso della parola fluido, pieno e rotondo.
R., un noto romanziere viennese, giovane, ricco e di bell’aspetto, con “lo sguardo del seduttore nato”, nel giorno del suo quarantunesimo compleanno, riceve una lettera da parte di una donna: “A te, che mai mi hai conosciuta”.
La donna, di cui non conosceremo mai l’identità, esordisce dicendogli che il suo bambino è morto e che ora, al mondo, non le rimane più nessuno a parte lui e gli chiede, quasi pregandolo, di avere la pazienza di starla a sentire: “permettimi, amore mio, di raccontarti tutto, tutto dal principio; ti prego, non stancarti di dovermi ascoltare per un quarto d’ora, di ascoltare chi per una vita intera non si è mai stancata di amarti.”
Le parole della donna, che si rincorrono libere, una dopo l’altra, senza sosta, come un fiume in piena, sono colme di adorazione e riverenza per l’uomo, ma allo stesso trasudano urgenza e tormento. Il suo è un grido di dolore. È la confessione straziante di un segreto custodito gelosamente per anni, che ora, però, deve vedere la luce, perché non c’è più tempo, non solo per i sogni, ma forse, nemmeno per la vita vera: "Se dovessi sopravvivere, strapperò questa lettera e continuerò a tacere come sempre ho taciuto. Ma se ora la tieni in mano, sappi che lì tra quelle righe una morta ti sta raccontando la sua vita, quella vita che fu tua, dalla prima all'ultima sua ora consapevole."
La donna, quasi in trance, ripercorre tutta la sua vita in modo puntuale, scandagliando ogni singolo ricordo legato a R. e al suo amore per lui. Un amore totalizzante, che per lei fu come “l’incontro con l’infinito”.
Gli racconterà di quando, appena tredicenne, lo vide per la prima volta e di come, giorno dopo giorno, silenziosamente, si fosse ritrovata a “spiare” nella sua vita, sperando di poterne fare parte; di come l’averlo incontrato avesse contribuito a renderla la donna che era diventata: “Tu trasformasti, tutta intera, la mia vita. Fino allora mediocre e apatica a scuola, divenni d’un tratto la prima della classe, leggevo un’infinità di libri sino a notte fonda perché sapevo che tu amavi i libri […]”, e di come quell’amore per lui fosse cresciuto insieme a lei, fino ad occupare ogni millimetro della sua mente, trasformando le sue fantasie, da principio infantili e delicate, in calde e sensuali: “…il mio unico pensiero: donarmi a te, a te abbandonarmi.”
Gli racconterà dei loro incontri fugaci e di come lui, mai, nemmeno una volta, in tutti quegli anni di devozione assoluta, l’avesse riconosciuta: “Tutti, tutti mi hanno viziata, tutti furono buoni con me – solo tu, tu solo mi hai dimenticata, tu solo, tu solo non mi hai mai riconosciuta!”
In fin dei conti, ciò che la sconosciuta spera è che almeno ora, mentre R. tiene tra le mani la sua lettera, possa ricordarsi di lei e sentire l’intensità di quell’amore puro e incondizionato che non ha mai chiesto nulla in cambio. Quell’amore che viveva di luce propria e che per quanto doloroso fosse, perché non ricambiato, la faceva sentire viva. Gioia e tormento allo stesso tempo, abbracciati indissolubilmente in una danza senza fine, come nelle note delicate di “The light she bring” di Joep Beving.
Dietro l’apparente semplicità di una storia di cui, volutamente, ho deciso di non svelarvi l’intreccio per non privarvi del piacere di scoprirlo da soli, si cela una trama complessa, con implicazioni psicologiche molto profonde.
Tra le pagine di questo libro, infatti, alberga la forma più alta d’amore, quella che dà senza chiedere nulla in cambio. Un amore non convenzionale, ma non per questo meno vero e profondo di tanti altri amori vissuti nella normalità del quotidiano. Un amore “partigiano”, tenace, accudente, seppur non ricambiato. Quasi un’ossessione. O forse, una vera e propria ossessione. Ma chi siamo noi per giudicare le scelte degli altri, e soprattutto i sentimenti degli altri? D’altronde, non è forse vero che il confine che separa amore e ossessione, in molti casi, è sottilissimo?
Zweig, inoltre, scava nel disagio interiore, mostrandoci come il tormento con cui ciascuno di noi si ritrova a fare i conti, assai spesso, sia un demone invisibile agli occhi di chi ci sta intorno ed è quasi inevitabile chiedersi se siano gli altri ad essere ciechi o distratti o se, piuttosto, siamo noi abili nell’indossare maschere e renderci inaccessibili, così da mostrare solo il lato più superficiale di ciò che siamo, per difesa o magari per paura di essere giudicati.
Così, arrivati alla fine del racconto, una volta riposto il libro, non si può fare a meno di pensare che forse Gesù aveva ragione nell’affermare che solo la verità può renderci veramente liberi…