Se mai arriveranno ad essere popolari anche da noi vorrà dire che nel resto del mondo avranno già fatto il botto, quello vero. Detto questo, le premesse ci sono comunque, perché gli Sprints possano divenire un nuovo punto di riferimento della ormai sempre più affollata scena della “nuova musica con le chitarre” (io non so più come chiamarla, fate voi).
Il problema, ad accostarsi a questo quartetto che ha come base Dublino (tanto per cambiare), è esattamente questo: come conciliare l’obiettività di giudizio su un disco con il fatto che il suddetto arrivi ad essere pubblicato sull’onda di un hype che forse ormai non è più così raro a vedersi (diciamoci la verità: quanto si è abbassata negli ultimi anni la soglia del nostro entusiasmo?) ma che risulta comunque degno di nota.
Due EP, Manifesto nel marzo del 2021 e A Modern Job esattamente un anno più tardi, hanno preparato la strada e suscitato consensi, concretizzatisi in un’attività live di tutto rispetto, fatto di club importanti (la Scala di Londra e il Button Factory a Dublino, giusto per dire), sold out in patria e nel Regno Unito e partecipazioni a festival importanti come The Truck o The Great Escape. A breve si imbarcheranno in un vero e proprio tour sia in Europa (ovviamente non in Italia) che negli Stati Uniti, ed è abbastanza facile immaginare che vivranno una sorta di consacrazione definitiva.
Questo, se non altro, a giudicare dal presente, perché il futuro è comunque sempre incerto e la strada del successo non è mai stata così imprevedibile, specie in questi tempi confusi (ne sanno qualcosa gli Sports Team, che col loro esordio avrebbero dovuto spaccare il mondo, mentre il secondo disco non se l’è cagato nessuno o quasi).
Gli Sprints, ad ogni modo, sembrano giocare bene le loro carte. Hanno dalla loro una cantante come Karla Chubb, sufficientemente carismatica e interessante vocalmente da poter ambire allo status di icona, che ha Jehnny Beth e le Savages come fonte primaria di ispirazione (anche se dice di essersi avvicinata alla musica ascoltando Live Era dei Guns N’ Roses, cosa che non può che rimarcare ancora di più la sua giovane età) e scrive testi intensi e graffianti, dove il vissuto personale si incontra con le legittime preoccupazioni per un mondo che giorno dopo giorno diventa sempre più incomprensibile.
Accanto a lei ci sono il chitarrista Colm O’Reilly, il batterista Jack Callan e il bassista Sam McCann; quest’ultimo particolarmente importante, perché è stato il suo ingresso in formazione a definire l’attuale sound del gruppo, con l’abbandono dell’Alt Folk suonato in precedenza quando erano un trio.
Non so come siano dal vivo, ma in studio senza dubbio hanno lavorato bene e si avverte una coesione non comune, per gente così giovane e relativamente inesperta. I brani hanno un non so che di dissonante e ambiguo, anche quelli più up tempo, in bilico tra Punk e Power Pop (“Adore Adore Adore” e “Litterally Mind”, quest’ultima unico episodio non inedito, in quanto già presente negli EP ne sono gli esempi migliori), mentre il lavoro chitarristico è sempre molto interessante, unito ad una sezione ritmica che sa mantenere i brani costantemente in tensione.
Rispetto agli EP c’è stato qualche passo avanti, evidente in un songwriting parecchio migliorato e che presenta anche una maggiore varietà di spettri d’influenze, laddove le prime composizioni seguivano spesso la formula del Post Punk rabbioso con vocals urlate o declamate.
Così, se è vero che l’accoppiata iniziale “Ticking”/“Heavy” (da quest’ultima è stato tratto un video molto piacevole) si muove ancora su questa falsariga un po’ Idles, già i successivi episodi in scaletta si fanno notare in maniera diversa: c’è per esempio “Cathedral”, che parte con un cupo mid tempo per poi esplodere in un ritornello fragoroso e liberatorio (la capacità di far evolvere i brani dandogli spesso strutture non scontate è un altro bel punto a loro favore); oppure “Shaking Their Hands”, incentrata su una chitarra “pulita” e con un andamento melodico che ricorda molto i Fontaines D.C.; per non parlare poi di “Shadow of a Doubt”, la meno selvaggia del lotto e quella più articolata nella formula; o ancora, “Can’t Get Enough of It”, che parte con un riff che sembra citare “How Soon is Now?” degli Smiths ma sfocia poi in un ritornello irresistibile, con una sezione ritmica massacrante.
Il finale ritorna sui passi iniziali, addirittura con la title track, un altro pesante mid tempo, che riprende esplicitamente il mantra ossessivo “Am I Alive?” che era al centro di “Ticking”. “A Wreck (A Mess)” e “Up and Comer”, più Punk e primitive nelle intenzioni, sono forse meno interessanti ma non si può dire che manchino di piacevolezza.
Letter to Self è un buon esordio che però non giustifica, a mio modesto parere, l’euforia suscitata nel mondo anglosassone: anche solo a paragonarlo coi debutti di altri due illustri act irlandesi, Fontaines D.C. e Murder Capital, non ci sarebbe partita, ma pure Brutalism degli Idles era un lavoro che suonava già enormemente superiore. Eppure, c’è un certo non so che di affascinante in queste canzoni: derivative, prive di quell’aura di grandezza che le farà diventare dei classici, ma comunque piacevoli, ben costruite e suonate da una band che sembra avere tutta la fiducia possibile nei propri mezzi. Insomma, lasciamoli lavorare e potrebbe essere che cresceranno davvero.