Che gli Offspring siano un pezzo di storia non si discute, come nemmeno che siano uno dei mattoni fondamentali dei ricordi e della formazione musicale di qualunque persona nata tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ancora di più se amante del punk. Che sia stato Smash (1994) o Americana (1998), che sia avvenuto grazie ai consigli di un amico o ai video in rotazione su MTV, se siete nati in quel ventennio vi sfido a non avere un ricordo legato ad una qualche loro canzone.
Personalmente ricordo ancora come a otto anni sia rimasta folgorata dal punk per la prima volta con una loro traccia e so bene di essere in buona compagnia. Testimone la folla sempre presente ai concerti degli Offspring, che hanno la fortuna di poter realizzare set composti da soli singoli e grandi hit, giocando su un pubblico di vecchi fan che paga per sentirsi di nuovo un adolescente degli anni Novanta e di alcuni fan più giovani, spesso figli di quegli stessi ex-adolescenti.
Complice l’enorme fama acquisita nel corso degli anni e il passaggio sempre garantito nelle principali radio rock, l’attesa del pubblico per una loro nuova traccia o album si avvale di questi stessi sentimenti di nostalgia da età dell’oro. Chiariamo però: non che il pubblico aspetti realmente con ansia la loro nuova musica; quello generalista potrebbe ascoltare solo brani vecchi tutta la vita e non gli cambierebbe nulla, mentre quello più specializzato e punk è già andato oltre da un bel po’, ma è sempre curioso di dare un orecchio a quello che combinano dei vecchi idoli.
Aggiungiamo a tutto ciò un altro dato di contesto: gli Offspring non pubblicano un nuovo album da nove anni. Per andare in tour non ne avevano bisogno e l’ultimo lavoro pubblicato risale al 2012: l’ottimo album rock (e per questo da molti criticato) Days Go By. Nel tempo passato, oltre a suonare live quasi ogni anno fino a prima della pandemia, Dexter Holland nel 2017 ha avuto modo di concludere finalmente il suo dottorato in biologia molecolare presso l'University of Southern California, rifiutato anni prima per dedicarsi alla carriera musicale, mentre come band hanno cambiato bassista (Todd Morse ha sostituito Greg K.) nel 2019.
Sin dal 2013 la band aveva iniziato a lavorare in studio alle nuove tracce: ogni anno ne componevano più o meno due e ogni anno Noodles dichiarava che l’anno dopo avrebbero pubblicato un nuovo album, o forse un EP. Nel 2020 l’annuale dichiarazione risultò vera ma iniziò la pandemia, quindi eccoci arrivati come per magia al 2021 con Let The Bad Times Roll.
Com’è Let The Bad Times Roll? Un’accozzaglia di canzoni composte palesemente in periodi e anni diversi, una raccolta di tutto ciò che era stato composto dal 2013 ad oggi con nessuna attinenza l’una con l’altra se non il fatto di essere state composte dalle stesse persone, le quali sono però dei professionisti, perfettamente in grado di comporre dei brani orecchiabili, melodici, radiofonici e stilisticamente riconoscibili, prodotte impeccabilmente da un produttore del calibro di Bob Rock (Metallica, Motley Crue).
Lo stile è un incrocio tra quello più rock degli ultimi due album e quello più punk di lavori come Ixnay On The Hombre (1997). Alcune tracce ricordano più un certo album, altre ne ricordano altri, a causa dei giri di chitarra, dei passaggi sonori o strutturali o dei cori che richiamano più o meno palesemente questa o quell’altra traccia o questo o quell’altro disco: se siete fan esperti potete fare un gioco-aperitivo basato sui riconoscimenti incrociati che distinguete.
Sui testi invece meglio non soffermarsi, vista la superficialità con cui si parla un po’ di politica, un po’ di cose stupide, un po’ di cose banali, ma per il fan tipo che ascolterà queste tracce alla radio o mentre fa altro, distinguendo al massimo un ritornello qua e là se va bene, la cosa non fa nemmeno troppa differenza, e a questo punto è meglio così: non ci si perde nulla di particolare. Tralasciamo pure la bruttezza della copertina dell’album (mamma mia, non c’era davvero una soluzione migliore?).
Il punto forte è il suono, la produzione e il volersi divertire con qualche nuova canzone in pieno stile Offspring. Ma che non ci si aspetti nulla di più. Da qui a quello che alcune famose testate internazionali hanno definito “uno dei più begli album punk dell’anno” ne passa parecchia di acqua sotto i ponti.
A dirla tutta, infatti, di quelle 12 tracce e 33 minuti di musica in realtà non rimane molto: le prime sei tracce si rifanno ad un impianto rock e punk rock meglio strutturato e sapiente figlio del suono creato dalla band dagli anni 2000 in poi (un po’ senza anima e un po’ un esercizio di stile, ma ben realizzato e molto piacevole all’ascolto: a fare canzoni brutte non sono davvero capaci), mentre con la seconda metà di Let The Bad Times Roll le cose si fanno purtroppo molto più confuse e iniziano ad affastellarsi i perché.
Già sono passati nove anni, già non avrebbero bisogno di pubblicare per forza album nuovi, già sono state messe insieme quel paio di canzoni composte in tempi biblici, e comunque non si arriva nemmeno a mezz’ora, quindi cosa fanno? Aggiungono una cover di un minuto di “In The Hall of the Mountain King” così a caso, senza un senso; inseriscono non come bonus track, ma come brano ufficiale, una versione al pianoforte di “Gone Away” di cui nessuno sentiva il bisogno (coverizzando così loro stessi, dopo che altre band lo avevano già fatto, allo stesso modo sulla stessa traccia) e infine concludono il disco con “Lullaby”: un minuto di discutibile remix della title track del disco.
La domanda è quindi: perché? Non sarebbe stato più onesto fare un EP giusto per pubblicare le tracce composte in questi anni e poi vedremo? Oppure, se proprio ci si vuole divertire con umorismo e inserire qualche canzone in più, perché al posto di quei tre inutili brani non includere invece la loro geniale e divertentissima cover di “Here Kitty Kitty” (rifacimento punk rock della terribile canzone country di Joe Exotic, resa popolare dal documentario più trash che Netflix abbia fatto nel 2020, Tiger King)? Purtroppo è presente come bonus track nella sola edizione giapponese.
Nel complesso, quindi, Let The Bad Times Roll è un album mediocre, un miscuglio confuso di idee poco a fuoco che avrebbero avuto bisogno di più tempo per essere metabolizzate in modo migliore e un’occasione persa per valorizzare le poche canzoni realmente presenti, che invece avrebbero potuto ambire ad un giudizio migliore se solo fossero state collocate in un album meglio strutturato o un EP più tarato su quello che era il reale materiale in mano al gruppo. Ciò non toglie che vi saranno canzoni che canticchierete con piacere e che vi rimarranno in testa, ma la capacità di saper comporre brani piacevoli, ben composti e radiofonici non esime gli Offspring dal fatto di aver pubblicato un finto long playing che si colloca inevitabilmente in uno dei punti più bassi della loro carriera.