Cerca

logo
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
16/10/2018
Poobah
Let Me In
Let Me In è un album che si porta dietro una grossa fama tra i cultori del genere e che tutto sommato riesce a mantenere le sue alte promesse.

Intendiamoci: Mr. Destroyer è l’unico pezzo che potrebbe degnamente illustrare i titoli di testa de “La notte degli Hell’s Angels Licantropi”: Les Paul a valanga su caterve di Marshall, riff spogliati di ogni virtuosismo e abbellimento, rivestiti solo di volume e alcool, assoli degenerati di wha-wha sotto tortura e un intermezzo assurdo per grida belluine di chi sta subendo una scarnificazione senza anestesia.

Let Me In è un album che si porta dietro una grossa fama tra i cultori del genere e che tutto sommato riesce a mantenere le sue alte promesse. Il trio è il veicolo musicale dello sfrenato chitarrista Jim Gustafson, fricchettone biondissimo e occhialuto, di magnetica presenza, a metà tra un Johnny Winter in salute e il guru hippy che Dean Stockwell impersonava in Psych-Out. Il terzetto si assesta senza esitazioni tra i Pink Fairies di What A Bunch Of Sweeties e altri gloriosi rocker sotterranei come Truth and Janey.

Nel caso in cui dopo il bailamme della canzone d’apertura vi trovaste a guardare con sospetto le chitarre acustiche di Enjoy What You Have non abbiate troppa paura, perché il pezzo vanta solidissime basi di unplugged indie alla prima maniera di Crazy Horse senza spina, nonché un refrain dalla subdola orecchiabilità, pur in un’estetica di modesto francescanesimo West-Coast. Che non dura, perché con Live To Work si torna nel regno dell’ultra-boogie, con johnnywinterismi beceri che vengono a galla come un cadavere pieno di birra nella piscina gonfiabile dei bambini, un testo balordo (I’m such a jerk, i live to work!) e un riff talmente liso che può ben tener testa ad ogni gruppo garage in qualunque Bike-Fest tra Austin e Jacksonville. Già nel ‘72 sembrava impossibile tirarci fuori l’ennesima canzone.

Ancora più rozzo Rock'n Roll, pezzo che lo stesso Malcolm Young avrebbe avuto dubbi a mettere su disco e che ogni gruppo tra Flint e Detroit avrebbe schifato, ma che nelle mani di Gustafson, per qualche strana alchimia, riesce a trovare un proprio senso trash. Sarà che nel mezzo ci stava il bizzarro psycho-flamengo di Bowleen, un thriller che stupisce per la presenza sinistra di un organo atmosferico e sibilante, minimalista si direbbe, che non tracima mai in una improvvisata jam degna della fama più sinistra della Family di Manson. E peccato che il trio sprechi metà dell’ultimo pezzo, Let Me In, con l’immancabile drum solo di Glenn Wiseman, che non riempie nessun vuoto perché il gruppo, come gli inediti sulle ristampe CD ampiamente dimostrano, aveva idee da vendere, e già qui la chitarra puramente hard di Gustafson lascia intravedere assoli a cappella che si dilungano tra Farner e Angus Young in bello spolvero. Accompagnò l’uscita del LP il singolo (Going to) Rock City, puro Motor-City-Hard-Rock tra Frost e MC5 depoliticizzati; poi si dovranno attendere anni prima della seconda uscita ufficiale della band.

Il vinile, illustrato dalla peggiore illustrazione di Robert Crumb, uscì in sordina per la Peppermint (etichetta bianco-nera) ed è oggi valutato R3; non meno di 200 $ per una copia decente.

Molto interessanti le ristampe in CD, soprattutto quella del 2010 a cura della Ripple che alle sei canzoni del vinile aggiunge addirittura 12 tracce tratte da demo, live ed inediti: fondo del barile? Forse, ma alcuni pezzi sono notevoli, tra schitarrate furenti ed ampiamente sottoprodotte, contrabbassi saturi come campanoni di piombo e batterie scatenate in jam hard-psych senza controllo (le lunghe tirate di Make A Man Outta You, Upside Down Highway o la demente I'm Crazy, You're Crazy).

Jim Gustafson: guitar, vocals, keyboards            

Phil Jones: bass, vocals                

Glenn Wiseman: drums, vocals