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REVIEWSLE RECENSIONI
04/11/2019
GospelbeacH
Let It Burn
I GospelbeacH non danno mai fregature e chi segue la band fin dall’esordio sa con certezza che ogni disco, per quanto prevedibile, non sarà mai un brutto disco.

Let It Burn, terzo full lenght della band, è, se possibile, ancora più bello dei precedenti, anche se le frizzanti melodie di cui si compongono le dieci canzoni in scaletta, oggi sono inevitabilmente intrecciate a un filo di tristezza per la morte di Neil Casal, il chitarrista deceduto il 26 agosto scorso.  E non è un caso che la sei corde di Casal sia una delle spezie più saporite di questi brani molto genuini e diretti, baciati dal sole in California e attraversati da un eccitante senso per la melodia, che scorre da una canzone all’altra per quaranta minuti di ascolto decisamente accattivante.

Non c’è nulla di nuovo nella musica dei GospelbeacH, e tutte queste canzoni trasmettono un sentimento di famigliarità a chiunque abbia masticato appena un po' la musica americana concepita nel secolo scorso. Ecco, allora, che l’ascolto del disco evoca il nome di Tom Petty, quello dei Byrds, di John Mellecamp e dei Fastball, e magari anche quello dei Beatles, riletti, ovviamente, in chiave americanista come spesso accadeva ai Jayhawks.

Tuttavia, anche se le fonti di ispirazione sono palesi, è altrettanto evidente che la band capitanata da Brent Rademaker non copia nulla, semmai attinge allo stesso spirito e alla stessa atmosfera, creando non una replica ma un omaggio a quei leggendari artisti. Ne deriva, dunque, che anche se queste canzoni le abbiamo già ascoltate in anni diversi, da decenni a questa parte, tutto risulta comunque fresco e divertito, anche perché il songwriting è di ottimo livello e la band dà sempre l’impressione di suonare in studio come dal vivo.

Bad Habits apre il disco con una melodia morbida e zuccherina, scompigliata, poi, da una coda tortuosa e da un assolo lungo e lunatico di Casal: un concentrato di emozioni che da solo alza il livello emozionale del disco. La successiva Dark Angel è un singolo di facile presa, che palesa nel dna il codice genetico di Tom Petty e i suoi Heartbraker, lo stesso della più morbida Good Kid, mentre I’m So High possiede fattezze ed esuberanza rock, ma conquista soprattutto con una godibilissima melodia pop.

Tra gli high light del disco, giusto citare anche la conclusiva title track, il cui retrogusto al miele ricorda alcune cose dei Fleetwood Mac anni ’80, e soprattutto Get It Back, la migliore del lotto, che nasconde un’anima soul e indossa sgargianti abiti pop, che portano con la mente e le orecchie ai Jayhawks e, perché no, ai fab four.

I GospelbeacH, in definitiva, allestiscono una scaletta di “nuove vecchie canzoni", ma riescono a essere comunque credibili, forse proprio perché non cercano mai di nascondere le proprie radici e la passione per la musica con cui sono cresciuti. Semplicemente la ripropongono, con gioia e con spensieratezza, come se suonassero sempre col sorriso sulle labbra, liberi da mode e condizionamenti. E’ musica risaputa, forse, ma è grande musica americana.


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