Cosa incide nella valutazione di un disco, di un'epoca? Riusciamo, insomma, ad essere freddi giudici e a mantenere altero il nostro sguardo su ciò che ha segnato l'età più indimenticabile della vita?
Probabilmente no. A tenerci in scacco sono principalmente due fattori.
La nostalgia, ovviamente, quel filo sottile che riannoda alcuni ascolti a vicende piacevoli o amori che, nel ricordo, ancora possono struggerci. E l'imprinting, ossia quel fenomeno per cui dischi tutto sommato secondari ancora si fanno spazio ostinatamente nella mente solo perché gustati in un momento in cui tutto ci pareva nuovo, e la musica cominciava ad aprirsi nelle sue mille possibilità. Per tacere della nostalgia a latere, quella del collezionista, che ci induce ad amare, che so, i Big Country solo perché trovati a metà prezzo in qualche bottega ora defunta (e le stesse argomentazioni valgono anche per il vestimento dei dischi: come non godersi, a distanza di anni, Lotus di Santana, quel triplo vinile dai colori psichedelici che si apriva come un codice?).
Un buon avvocato difensore potrebbe, tuttavia, invocare opposte considerazioni: non è che questi dischi, poiché ascoltati in tempi in cui si ignorava la gigantesca totalità dell'ascoltabile, sono stati trascurati e sottovalutati?
Non è che si è un po' snobbati Rolling Stones e Deep Purple solo perché li si passava incisi sulle BASF 90 minuti, nel registratore anni Settanta, quando ci spuntavano i primi peli?
Ascoltare è bene, ma più importante è riascoltare. Qualcuno dei vecchi leoni non reggerà il riesame, qualcuno ci risulterà ingenuo o indifferente, altri ci sorprenderanno guadagnandosi, magari, qualche lode in più.
I Joy Division sicuramente reggono il riascolto, anzi i loro difetti, in questi due live ufficiali, fra stecche e attacchi a vanvera, li rendono ancor più grandi a distanza di trentasette anni. 37. Si invecchia, ragazzi.