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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
25/07/2017
Lennie Tristano
Lennie Tristano
Non è “roba” facile quella che propone Lennie, persino i suoi allievi sono in difficoltà: Lee Konitz, Warne Marsh, Peter Ind, Sal Mosca - non gli ultimi arrivati, quindi – possono darci un’idea di quanto fossero innovative le idee di quella che già si iniziava a chiamare Scuola di Tristano.

È buio. È completamente buio. Dalla stanza di sopra (le sentite?) provengono le note di un pianoforte.

Seguitemi, saliamo le scale.

Chicago. Anni Venti, quando tutto sa di blues e di jazz. Big Bill Broonzy, Meade “Lux” Lewis, giusto per citare due nomi ma si potrebbe continuare.

Le note che sentite, però, non sono propriamente blues. Riproducono con accuratezza e rigore quella che pare essere una canzoncina per bambini. Ascoltate bene e tenete a mente queste due parole: accuratezza e rigore. Vi serviranno.

È buio: anche questo non va dimenticato. Ora che ci troviamo davanti alla porta da cui fuoriesce questa musica, le note arrivano più nitide e la canzoncina comincia a prendere una forma più definita. È una melodia che avete sentito milioni di volte ma di cui non conoscete il titolo.

Non è importante, il titolo. Ascoltate e basta. Con accuratezza e con rigore. Al buio.

Dietro la porta troverete, seduto al pianoforte a muro, un dolcissimo bimbo di sei anni. Voi potete vederlo, lui non può vedere voi. È completamente cieco e si chiama Leonard.

Leonard Joseph Tristano si aggrappa disperatamente alla musica per fare luce nel buio. Tra un paio di decenni (lui ancora non lo sa) farà luce su tutto il mondo del Jazz.

Ciao, io sono Leonard, e tu?

È già cool a sei anni, il piccolo Lennie. Già austero, quasi asceticamente circonfuso da una tristezza oscura che si fa gioia solo quando fa correre le piccole dita sul pianoforte. È nato qui, a Chicago, ma ha origini italiane: Aversa, per essere precisi. E no, non sta suonando per voi. Sta suonando per se stesso, sta suonando per vedere la luce. Salutatelo ora, perché passerà i prossimi vent’anni tra scuole, istituti per ciechi e minorati, e infine conseguirà il Bachelor of Music al Conservatorio. Non nei quattro anni previsti dal programma, ma in due. Tanta, tantissima musica classica. Il suo amore, però, è e rimarrà sempre il Jazz. Art Tatum, Earl Hines, Lester Young: eccoli i suoi veri maestri.

Tra il 1942 e il 1943 lo ritroviamo a suonare rumbe nei night club per sbarcare il lunario. Aveva tentato, Lennie, di proporre la propria musica ai gestori di quei locali, ma nessuno di loro era in grado di comprenderla. Volevano roba facile, ballabile, alla moda. Al massimo il bebop.

E che rumbe siano, allora: dovrò pur sopravvivere in qualche modo. Rumbe e lezioni. Perché in questo periodo il ragazzo scopre dentro di sé un’altra cocente passione: quella per l’insegnamento. Poi c’è New York.

Lennie vi giunge nel 1946 attratto dalla sconfinata ammirazione per Bird. Suonano anche assieme. Lui, Bird e Dizzy. Il suo nome comincia a girare, suona un po’ ovunque gli standard del momento, riscuote consensi, apprezzamenti, plausi e tutto questo grazie all’intercessione del critico Barry Ulanov, il primo, forse, a intuire e comprendere l’immensa portata, in termini di innovazione, dell’artista. Sono ancora in pochissimi, tuttavia, coloro in grado di saper riconoscere le sue strabilianti doti compositive.

Non è “roba” facile quella che propone Lennie, persino i suoi allievi sono in difficoltà: Lee Konitz, Warne Marsh, Peter Ind, Sal Mosca - non gli ultimi arrivati, quindi – possono darci un’idea di quanto fossero innovative le idee di quella che già si iniziava a chiamare Scuola di Tristano.

Incide in trio, con Arnold Fishkin al contrabbasso e Billy Bauer alla chitarra, piccoli bozzetti astratti, appunti miracolosamente già compiuti, brevi fughe costruite sulle armonie di notissimi standard. Coerentemente, ne modifica anche i titoli e non è solo questione di copyright: in questo processo di trasmutazione c’è tutta la poetica del pianista di Chicago.

Schivo, serioso, spesso scostante e a tratti formale fino all’algidità, poco incline alla conversazione e alle cose mondane, Tristano sembra quasi non aver tempo da perdere in altro che non sia la musica, ed è questo il Tristano che nel 1949 si appresta si appresta a incidere cose che fino a quel momento erano impensate e impensabili, persino per i musicisti stessi coinvolti in quella sessione. Lennie fornisce loro brevissime e invero vaghe indicazioni: vuole che il sestetto improvvisi il più liberamente possibile, quasi senza vincoli armonici o melodici.

I due brani che scaturiscono dalla seduta, “Intuition” e “Digression” sono ormai considerati i primi due esempi di improvvisazione totale e, con le necessarie cautele del caso e i dovuti distinguo, vi si possono riconoscere i prodromi del free jazz.

Lineare Lennie non lo è neanche nella vita privata. Scompare dalla scena per lunghissimi periodi e poi riappare all’improvviso con qualcosa di nuovo. E “nuovo”, quando si parla di Tristano, non sta a significare semplicemente inedito.

Più che a diventare una “stella del Jazz”, Tristano si concentra nella diffusione delle proprie idee e concezioni: il verbo tristaniano, per così dire. Si costruisce uno studio di registrazione a casa e sperimenta con l’overdubbing, una bestemmia per i jazzisti dell’epoca.

Nel 1953 registra quell’impressionante affresco avanguardistico noto come “Descent Into The Maelstrom”, e lo pubblicherà solamente, pescando dagli archivi, più di vent’anni dopo, a metà degli anni Settanta. Indescrivibile, ancora oggi: un’improvvisazione pianistica totalmente free e costruita per strati di sovraincisioni. Otto anni prima che Ornette Coleman seminasse il panico con Free Jazz.

Tre anni dopo, nel ’56, la Atlantic pubblica l’album Lennie Tristano. Sfilano meraviglie inaudite sul primo lato. “Line Up”, così come “East Thirty-Second Street”, è un ininterrotto assolo di pianoforte accompagnato da batteria e contrabbasso; Lennie accelera leggermente la velocità del nastro conferendo al suono un timbro singolare e straniante. Si grida allo scandalo senza comprendere l’intento dietro l’artificio.

Fece inoltre registrare prima la sezione ritmica da sola e successivamente le sue parti: in questo modo si sentiva più libero di esplorare ritmicamente il tessuto armonico senza deviare le traiettorie di contrabbasso e batteria. Si costruì una gabbia per essere libero…

E poi “Requiem”, dedicata a Charlie “Bird” Parker, un blues primigenio e ancestrale che commuove con la sua improbabile e inaspettata dolcezza; ma anche “Turkish Mambo”, in cui le tracce di pianoforte vengono suonate separatamente e poi assemblate durante l’editing.

E poi, di nuovo, il silenzio. Tristano si ritira di nuovo per dedicarsi, si dice, all’insegnamento.

Nel 1962 esce “improvvisamente” un nuovo album, The New Tristano, e sono altre meraviglie che influenzeranno profondamente la scena jazzistica.

Ciao, io sono Leonard e non ho nessuna intenzione di prostituirmi alla musica commerciale.

Lennie Tristano diventerà uno dei musicisti più influenti del Novecento, benché quasi sconosciuto al grande pubblico. I critici dell’epoca tacceranno la sua musica di “freddezza”, di intellettualismo fine a se stesso, di superficialità estetica senza mai coglierne appieno la grandezza e la passionalità spesso sovversiva, anticommerciale, avanguardistica.

L’8 novembre del 1978, Lennie Tristano muore improvvisamente per “complicazioni cardiache”. Solo e dimenticato persino dai suoi allievi che ormai da anni, misteriosamente, si fanno scuri in volto e reticenti quando si tratta di parlare del Maestro, aggrottano la fronte, si chiudono in un cupo silenzio.

Ma ora si è fatto tardi. Il piccolo Lennie deve riposare. Domani dovrà alzarsi di buon ora per riprendere gli studi. È buio, ma lui vede con le dita. E con le dita fa luce nel buio.

Nel suo e nel nostro.