“Dio ci ha diviso in due categorie. E ora tutti viviamo in un labirinto. Alcuni trovano la strada,
con fatica e sacrificio. Altri, invece, vagano perduti per così tanto tempo che
finiscono per diventare loro stessi un labirinto.”
Andrea Donaera è nato nel 1989 a Maglie, un piccolissimo comune in provincia di Lecce, ma è cresciuto a Gallipoli. È giovanissimo, eppure è già considerato uno degli scrittori più promettenti dello scenario letterario italiano, tant’è che il suo primo romanzo, “Io sono la bestia”, è stato accolto con grande plauso da pubblico e critica ed è stato tradotto anche in Francia.
Lei che non tocca mai terra è il suo secondo lavoro, ed è ambientato proprio a Gallipoli, un luogo che, un po’ come tutte le piccole città di mare, sembra possedere due volti diametralmente opposti, quello spento e sonnacchioso dei mesi invernali, e quello pieno di vita e colori tipico dei mesi più caldi, quando “il paese” si risveglia più bello che mai, pronto ad accogliere e divertire orde di turisti.
La Gallipoli che affiora ogni tanto tra le righe del racconto, però, non è quella brulicante e patinata delle estati calde del Salento, fatta di locali sempre pieni, di spiagge paradisiache, di muri bianchi dipinti a calce, di buganvillee colorate che riempiono i vicoli del centro storico e di strade lastricate di pietra che riflettono, con ancora più prepotenza, i raggi di un sole che in certi momenti sa farsi caldissimo.
Qui, è la Gallipoli più vera a essere raccontata, quella che appartiene solo a chi ci è nato e cresciuto. A chi ci vive e si scontra, ogni giorno, con una realtà che ha poco o nulla da offrire, soprattutto ai giovani. “È un paese di merda. Terribile davvero”, da cui, però, in molti non riescono a fuggire. E così si resta, ma più si resta e più ci si radica, fino a diventare un tutt’uno con la terra, con le proprie origini, con il disagio che cresce e un’immaginazione che si fa sempre più forte e che diventa necessaria per tentare di colmare il vuoto che si ha dentro, quel vuoto fatto di tante cose che mancano, ma che non si ha il coraggio di andare a prendersi altrove.
“…un paese che dice sempre che sta lavorando, che sta producendo, che è in procinto di, ma che alla fine non fa niente. Un paese che ogni tanto ha qualcosa di buono: una bella luce sul lungomare, un tramonto da foto. E allora tutto va bene, e allora si resta qui. E allora tutto è in pace.”
Ma la bellezza di un tramonto da foto non basta a zittire quelle voci che continuano a ripeterti che non stai bene e che la vita che stai vivendo non ti appartiene, perché ti senti costantemente imprigionato in una gabbia, e Miriam, questo, lo sa bene. Perché Miriam, con pensieri così, deve farci i conti tutti i giorni, anche quando, dopo un incidente, entra in coma.
È in coma, ma può sentire tutto ciò che le accade attorno. È prigioniera di un corpo immobile, che non può più controllare. Vista dal di fuori sembra morta, ma la sua mente è lucida. I suoi pensieri si muovono veloci. Parla ininterrottamente a sé stessa. Ripercorre la sua vita. Ricorda e scava. Più scava, più ricorda, e più mette a fuoco. “Scappi da ogni versione di te stessa, da sempre. È per questo che hai iniziato a mancarti così tanto… sei niente, sei dissolta”.
Così, ogni giorno, mentre è distesa nel suo letto, sospesa tra la vita e la morte, tra il bianco e il nero, tra il desiderio di lasciarsi affogare e quello di reagire e tornare in superficie, durante le sedute di talking cure, caldamente raccomandate dalla sua dottoressa, perché è necessario che qualcuno le parli e la stimoli, può ascoltare le confessioni disperate e a tratti sconnesse di Mara, sua madre, e quelle di Lucio, suo padre. Due vite irrimediabilmente segnate. Due persone che un tempo si amavano, ma che ora stanno insieme per inerzia, per dovere o forse perché certe volte restare e sopportare, quando non ci si aspetta più nulla dalla vita, è la cosa più semplice da fare. Quella che richiede meno sforzi e fatica.
Può ascoltare la voce di Gabry, che un tempo era la sua migliore amica. La sua unica amica. Una che ce l’ha fatta a lasciare “il paese” e ora vive a Bologna, ma non può tornare a casa, perché ha avuto “un mezzo cazzo con gli sbirri”. Così, non potendole stare fisicamente vicino, le registra dei messaggi lunghissimi. Si sono perse lei e Miriam, un po’ per le circostanze, un po’ per le incomprensioni, un po’ per la distanza e un po’ perché, certe volte, è così che deve andare. Ci si perde e basta. Ma Gabry vuole un gran bene a Miriam… “Miriam. Senti, se muori te muoio pure io. Ok?”
E poi c’è Andrea. Lui non ha nulla a che fare con la talking cure. Si conoscono appena, ma è già innamorato perso di lei. Va a trovarla tutti i giorni, le si siede accanto e le parla. Si parlano nella mente, perché lui, per qualche strano motivo, riesce a sentirla. Dialoghi fitti, poetici, intensi, in cui i due ragazzi si raccontano, si confidano, si sfogano, pensano al futuro, a quando Miriam starà di nuovo bene, e fanno progetti. Andrea la sprona, vuole che Miriam ritorni alla vita. “Ci sono io. Tieniti a me… Devi consigliarmi dei dischi belli da ascoltare… E io ti insegno a guidare… E poi arriviamo qui davanti a casa tua, e prima che tu scenda dall’auto io ti dico che stavo pensando di prendere in affitto una casa a Lecce, e che magari, se ti va, io e te potremmo…”
Ma Papa Nanni, mentore di Andrea, santone ed esorcista del paese, venerato e benvoluto da tutti, crede che in Miriam risieda il male, che in lei ci sia il diavolo, o qualcosa di simile, e fa di tutto per spingere il suo amato allievo a troncare la relazione con la ragazza. I motivi di questa convinzione, così come gli intrecci della storia e il legame tra i vari personaggi, verranno svelati pian piano, nell’arco di 7 giorni, capitolo dopo capitolo, attraverso le voci e i racconti, molto simili a confessioni, di tutti i protagonisti, fino a giungere a un epilogo sconvolgente e inaspettato.
Lei che non tocca mai terra (“She who never touches ground”, citazione tratta da un brano dei Moonspel intitolato “Capricon at Her Feet”) è un romanzo dalle tinte fosche, complesso e penetrante. Non è sicuramente una lettura leggera, perché il dolore e il tormento sono tangibili e in alcuni momenti prendono il sopravvento. Disagio e desiderio di riscatto sono due dei temi centrali. Bene e male, disperazione e speranza, luce e ombra si rincorrono senza sosta, come fossero due facce della stessa medaglia. Perché in fin dei conti, che cos’è la vita se non un ossimoro continuo? Le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi sono tratteggiati con intensità e profondità, attraverso l’uso di un linguaggio musicale e poetico. Lo sciabordio del mare, il sibilo del vento, il sapore del sangue e quello della morte si mescolano alle note di “Are you there?” degli Anathema, la canzone preferita di Miriam. Un romanzo consigliatissimo, se non vi spaventa l’idea di fare i conti con tutto ciò che avete dentro e che magari, fate finta di non vedere (più).
“Scoppierà la vita tua e scoppierà la vita mia. Entrambe saranno una roba nera e accartocciata e fumante e cancerogena come certi ricordi che fai di tutto per mettere via ma che invece la notte tornano e ti mangiucchiano la spina dorsale. O forse no. Miriam, forse no.”