“Leaving Meaning” è l'ennesimo tassello di una discografia sterminata e nelle intenzioni del mastermind californiano dovrebbe rappresentare l'inizio di una nuova fase.
A ben vedere, non tutto è cambiato dal punto di vista dei musicisti coinvolti: abbiamo la novità dei The Necks e delle due sorelle Anna e Maria Von Hausswolff, il musicista e compositore Ben Frost, due musicisti classici come Jeremy Barnes e Heather Trost, ma l’ossatura degli strumenti è affidata ancora a vecchie conoscenze come Kristof Hahn (chitarre), Yoyo Röhm (basso) e Larry Mullins (batteria; oggi suona stabilmente coi Bad Seeds ma è stato per lungo tempo accanto a Gira, sia con gli Swans che con gli Angels of Light); inoltre, ancora una volta c’è la moglie Jennifer, ad occuparsi di alcune parti vocali.
Per il resto, la solita lunga lista di collaboratori ed ospiti, che rende anche questo ennesimo parto, un lavoro corale e partecipato come è nel loro stile.
Per quanto riguarda i contenuti, l’attesa era tanta: un po’ perché Gira è un genio folle che di fatto non delude mai, un po’ perché dopo una trilogia di dischi colossali (per dimensioni e bellezza) come “The Seer”, “To Be Kind” e “The Glowing Man”, era difficile capire quale direzione avrebbe potuto prendere la loro musica; soprattutto perché, occorre sottolinearlo, con i lavori in questione si erano espressi ad un potenziale talmente alto che pareva impossibile trovassero ancora qualcosa da dire.
Detto fatto, la formula di questa nuova versione del collettivo, è stata quella di tornare parzialmente indietro, recuperando quelle sonorità più acustiche e dimesse che avevano caratterizzato un lavoro come “White Light from the Mouth of Infinity”, probabilmente il più rappresentativo della vena cantautorale insita nel sound della band.
Un brano come “Annaline”, dolce ballata posta in apertura, che molto deve alla tradizione americana nelle sue sonorità, è un chiaro indizio di una certa voglia di sfoltire la matassa e di presentarsi come più “riflessivi”. Stesso discorso per “Amnesia”, che ha un andamento più cupo, con le solite linee vocali cantilenanti di Gira che si ammantano d’inquietudine. O ancora, il tranquillo adagiarsi di “Cathedrals of Heaven” o il suggestivo crescendo del singolo “It’s Coming It’s Real”, che parla invece un linguaggio solare, molto vicino a quello del Gospel.
Il frutto probabilmente più saporito è quello maturato dalla collaborazione coi The Necks: il trio australiano si pone di fatto come vera e propria Backing Band durante “Leaving Meaning” e “The Nub”, che sono significativamente anche le tracce più lunghe del disco e che, posizionate al centro della tracklist, ne offrono probabilmente la chiave di lettura più esaustiva. Qui Tony Buck, Lloyd Swanton e Chris Abrahams ammantano le due canzoni col loro Jazz sperimentale e avanguardistico, fatto di suoni rarefatti e variazioni minimali, creando il tappeto sonoro ideale per un Lead Singer che, come al solito, si diverte a prolungare la melodia portante all’infinito, giocando sull’effetto ossessivo della dilatazione.
E poi ci sono le classiche track a la Swans: incalzanti, scure e disturbate, anche se bisogna dire che le sensazioni allucinatorie presenti nei precedenti dischi sono state nel complesso temperate. La terra non si apre più sotto i nostri piedi, la percezione del reale rimane tutto sommato solida e l’inferno non sembra essere tra noi. Ciononostante, canzoni come “The Hanging Man” (dal testo fortemente immaginifico e dalle ritmiche secche di scuola Bad Seeds), “Sunfucker” (essenzialmente divisa in due parti, una più lenta e una seconda che presenta il solito ritmo incalzante che ce li ha resi famosi) e “Some New Things” (splendido assalto frontale) ci riportano in territorio confortevole, restituendoci tutto quello che abbiamo amato degli Swans più recenti, seppure in versione più snella e meno esplosiva dal punto di vista elettrico (il suono è infatti nel complesso più acustico, molto meno carico di potenza).
Già, perché nonostante “Leaving Meaning” sia ancora una volta un doppio disco, nonostante duri 93 minuti, bisogna dire che non solo è più breve dei precedenti ma che risulta anche più incentrato sulle canzoni, piuttosto che sulle sensazioni e sull’ispirazione del momento. Per questo motivo, ci sentiamo di battezzarlo come il lavoro più fruibile degli Swans da molto tempo a questa parte, possibile chiave d’accesso per chi volesse avvicinarsi per la prima volta a questa band ma si facesse scoraggiare da una discografia molto articolata e da una proposta di sicuro non tradizionale.
Ennesimo capolavoro per Gira e compagni, dunque, ennesima dimostrazione che l’arte si nutre soprattutto di visioni, di lampi di ispirazione, e che quando la bellezza scaturisce come conseguenza di una ricerca libera, senza nessun paletto di convenienza da Music Business, per quanto si parli un linguaggio non convenzionale, si riuscirà a trasmettere il vero senza troppi fronzoli.
Gli Swans volano ancora altissimi, con loro la ripetizione all’infinito della stessa linea melodica non è mai stata così affascinante. E non osiamo pensare che cosa possano diventare queste canzoni suonate dal vivo. A febbraio lo scopriremo: se non li avete mai visti fidatevi e cercate di non perderveli.