Questa è la storia di due geni vissuti in epoche diverse, lontanissimi nello spazio e nel tempo, eppure indissolubilmente legati fra loro. Uno si chiamava Johann Sebastian Bach, era tedesco e visse a cavallo tra il 1600 e il 1700. Compositore, organista, clavicembalista, è considerato universalmente uno dei grandi geni della storia della musica. Quante volte abbiamo sentito parlare di Bach? Tante, vero? Eppure noi, comuni mortali, così lontani per gusto da quella musica antica costruita sul concetto di contrappunto, di lui conosciamo ben poco e abbiamo consapevolezza della sua esistenza solo quando ci capita di ascoltare la celeberrima Toccata e Fuga in Re Minore.
L’altro dei due geni raccontati in questa storia si chiama Glenn Herbert Gould (canadese di Toronto, nato nel 1932 e deceduto cinquant’anni dopo),ed è uno dei più straordinari pianisti e compositori del secolo scorso. Cosa sappiamo di lui? Anche in questo caso, non molto. Eppure, le informazioni su Bach e Gould emergono prepotentemente da qualche anfratto del n ostro cervello, nel preciso istante in cui sentiamo parlare delle Variazioni Goldberg, opera per clavicembalo composta dall’organista tedesco a cavallo tra il 1741 e il 1745.
Bach e Gould, Germania e Canada, XVIII e XX secolo, e una musica che è un filo conduttore, una catena di note che infrange le barriere del tempo e dello spazio, per unire in un abbraccio indissolubile la creatività e la sensibilità artistica di due uomini all’apparenza tanto lontani. Bach e Gould devono qualcosa della propria fortuna l’uno all’altro: le due magistrali esecuzioni di Gould hanno avuto il merito di far conoscere al grande pubblico le Variazioni, un’opera colta ed estremamente ricercata, che prima di allora era patrimonio esclusivo di una nicchia di intenditori; e per converso, senza la riscrittura dell’opera di Bach, Gould non avrebbe probabilmente avuto tutti i meritati riconoscimenti che invece ottenne durante la propria luminosa carriera.
Raccontare Le Variazioni di Goldberg è estremamente complesso, e personalmente non possiedo un briciolo di quelle competenze che sarebbero necessarie a rendere plausibile questa breve esposizione. Non ho alcuna pretesa di completezza, quindi, e la mia intenzione è solo quella di suggerire una musica della quale mi innamorai fin dal primo ascolto e che, peraltro, conobbi con colpevole ritardo, leggendo La Versione Di Barney di Mordecai Richler, in cui le Variazioni vengono espressamente citate. Non prendete per oro colato le mie parole, dunque, ma concentratevi esclusivamente sulla musica, perché ascoltarla è una dichiarazione d’amore verso l’umanità.
Inutile cercare di capire subito cosa si sta affrontando, meglio chiudere gli occhi e aprire il proprio cuore al fluire delle note. Le Variazioni di Goldberg (Goldberg era un maestro di cappella a cui Bach dedicò l’opera) impongono un grande sforzo cerebrale, che se messo in atto subito, potrebbe rovinare il piacere dell’ascolto. E’ meglio che prima la musica fluisca in noi, ci rapisca, conquisti la nostra carne, il nostro sangue, ci accarezzi lentamente la pelle. E poi, finalmente, si può tentare di capire. Cosa non semplice, lo ammetto.
Le Variazioni sono un impianto architettonico di 32 brani, costruito secondo regole matematiche, simmetrie e divisioni binarie. Per dirla in modo rozzo, ma comprensibile: la stessa armonia (l’Aria iniziale) viene proposta, ma variata, per trenta volte, e poi riproposta identica alla fine (Aria Da Capo). Come se fosse una musica che si guarda allo specchio, un sorta di viaggio di andata e ritorno in un universo di fascinazioni geometriche. Capite, dunque, quali e quante siano le implicazioni a cui siamo chiamati a far fronte: musica, logica, matematica, architettura e, perché no, anche filosofia, dal momento che ci troviamo ad affrontare in qualche modo i concetti di creazione artistica e le interconnessioni fra complessità e semplicità (ciascuno dei 30 brani contiene qualcosa del precedente, in un processo osmotico di arricchimento).
Quando Glenn Gould studiò Bach, si innamorò così tanto delle Variazioni di Goldberg da registrarne per due volte, caso rarissimo, l’esecuzione in studio. Entrambe le versioni sono superbe (suonate per pianoforte e non per clavicembalo, e quindi tecnicamente più complesse) e, soprattutto, uniche, perché realmente diverse l’una dall’altra.
La prima, del 1955, è più energica e veloce; la seconda, che risale al 1981, più lenta, intima e sofferta. Tra le due esecuzioni, la bellezza di 26 anni di riflessione, come se Gould non fosse stato contento del lavoro svolto la prima volta, e avesse rimuginato a lungo su come migliorarsi e dare pienezza al genio e l’intendimento di Bach.
Una resipiscenza operosa, mi si passi il termine giuridico, che regalò all’umanità quella che forse potremmo definire lala più monumentale fascinazione musicale della storia.